Dove va il pubblico impiego?

Intervista a Beppe Allegri


Mance elettorali? Campagne stampa sui furbetti del cartellino orchestrate da furbetti dell’impresa, della banca, della politica?


Preferiamo concentrarci su analisi di profondità e possibili strategie che interessano milioni di persone che lavorano per erogare servizi pubblici e che li utilizzano.         

1) Welfare State e lavoratori pubblici sono assediati. Hanno lavoro stabile, sono un bacino elettorale conteso, un elemento di stabilità dell’ordinamento e dei rapporti sociali. Intorno cambia il modo di produrre le cose e i contratti tra produttori. Il pubblico impiego è per forza conservatore?

Quella che potremmo definire come “crisi del Welfare State” è in realtà originata nel passaggio degli anni Settanta e proviene da una “contestazione” sociale, dei nuovi movimenti sociali (giovani, donne, ecologisti, etc.), alla burocratizzazione/disciplinamento degli individui negli ingranaggi astrattizzanti del Welfare (indagata da molti autori, a partire da Claus Offe o Michel Foucault), quanto da un’analisi sulla retorica della cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” (ripenso ai lavori di James O’Connor, morto recentemente, a partire dal libro del 1973 proprio titolato La crisi fiscale dello Stato, Einaudi). Senza dimenticare due aspetti centrali sempre in quegli anni e poco considerati nel nostro Paese. Da una parte, dinanzi alle spinte di partecipazione democratica e di rivendicazione di nuova giustizia sociale proveniente dai movimenti post-1968, si afferma la supremazia della governabilità nella “crisi della democrazia”, per riprendere il titolo del libro di Crozier, Huntington e Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla commissione Trilaterale, tradotto in italiano nel 1977, con prefazione di Giovanni Agnelli, che diviene un poco il manuale della “ristrutturazione” capitalistica dell’ultimo quarantennio. Dall’altra, tagliandola con l’accetta, è quello il decennio, avviato a metà anni Sessanta, della rivoluzione microelettronica e dell’innovazione tecnologica (nelle comunicazioni, servizi, informazione, etc.) che porterà agli anni Ottanta del “nuovo mondo post-moderno” (il libro di Jean-François Lyotard è del 1979, tradotto da Carlo Formenti per Feltrinelli). In questo quadro i sistemi di Welfare europei, a partire da quelli nordici, accelerano processi di modernizzazione e trasformazione che solo in parte toccano il caso italiano, nel quale lo Stato sociale è ancora inteso come uno Stato amministrativo, molto burocratizzato, pensato per categorie, tendenzialmente calibrate al maschile patriarcale e paternalista (il lavoratore salariato, capo-famiglia, proprietario, etc.; il dipendente pubblico; il contadino; l’imprenditore; etc.). Come mi è capitato di ricostruire in altre occasioni, a proposito del nostro modello di Stato sociale si parla di un «“Bismarck corporativo” degli anni ’30 costituzionalizzato» (così G.G. Balandi, L’eterna ghirlanda opaca: evoluzione e contraddizione del sistema italiano di sicurezza sociale, in Lavoro e Diritto, n. 2/2015, 313-327). Si aggiunga che in Italia solo in quel decennio dei Settanta del Novecento si cominciano a conquistare garanzie realmente universali (a partire dalla salute e dall’istruzione) rispetto ad un modello sociale che era nato come meno inclusivo rispetto ad altri («per un incredibile paradosso, lo Stato sociale che si afferma nel secondo dopoguerra in tutto il mondo occidentale per allargare l’“area della cittadinanza”, nel nostro Paese la restringe. Invece che avere un carattere “inclusivo”, lo Stato sociale all’italiana lo ha “esclusivo”, poiché non riconosce i diritti sociali a tutti i cittadini indistintamente ma soltanto ai lavoratori», così L. Di Nucci, Alle origini dello stato sociale nell’Italia repubblicana. La ricezione del Piano Beveridge e il dibattito nella Costituente, in C. Sorba (a cura di), Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea. Atti del convegno annuale SISSCO Padova, 2-3 dicembre 1999, Roma, 2002). In questo quadro il Welfare e l’impiego pubblico italiano assumono connotati che riescono solo in parte a realizzare un processo di allargamento della cittadinanza sociale e di inclusione di tutti i soggetti in un nuovo – e inedito per la storia dell’Italia unita – rapporto fiduciario tra cittadini e istituzioni pubbliche. Perché si rimane sospesi tra accesso “clientelare” al pubblico impiego ed erogazione “categoriale” dei servizi pubblici e delle tutele sociali. In tal senso il rischio è proprio quello di pensare più al lato “conservatore” dell’impiego nelle istituzioni pubbliche, piuttosto che all’aspetto progressivo del servizio pubblico come innesco di una trasformazione sociale nel senso di maggiore inclusione, partecipazione, protagonismo delle persone e delle collettività per maggiori servizi, diritti, solidarietà, etc. e una qualità alta dell’erogazione universale di tali servizi.

2) Se si guarda da vicino, ad es. in una amministrazione locale-comunale, è tipico avere un nucleo di competenze e di contratti stabili, attorno al quale ruotano, nel gestire i servizi: spa pubbliche, partecipate, fondazioni, coop, aziende speciali, agenzia interinali, etc. C’è una frammentazione estrema, ma resta un nucleo duro a livello di funzione di controllo e stabilità dei contratti. Ci sono ondate ricorrenti di stabilizzazioni nel pubblico impiego, in controtendenza con la precarizzazione. Dove va il pubblico impiego?

Qui bisognerebbe riprendere un pezzo di analisi che manca (insieme a molti altri) nell’altra mia risposta, laddove non ho citato le riforme del cosiddetto New Public Management introdotte dalla Signora Thatcher nell’Inghilterra degli anni Ottanta del Novecento e scopiazzate poi malamente anche qui da noi, in un misto di strana “sussidiarietà” terzo settore/pubblica amministrazione (in cui pare vengano socializzate solo le perdite e sempre privatizzati i profitti) e di altrettanto “imbarazzante” processo di “privatizzazione” della funzione pubblica, salvo mantenere la struttura gerarchico-piramidale delle burocrazie organicistiche di stampo Ottocentesco, dello Stato mono-classe. Anche qui pare si assista ad una sorta di cortocircuito temporale tra la permanenza di sacche di rendite di posizione corporative, degne di un sistema feudale di “Antico regime”, e una sbandierata governance post-moderna che genera nuovi lavori sempre più impoveriti e servili, insicuri e precari, nell’erogazione di servizi pubblici intorno a sanità, istruzione, trasporti, etc. Il Belpaese, insomma, sembra ancora sospeso tra mentalità parassitaria ereditata dalla tradizione latifondista della gestione delle terre (e dei “capitalisti di Stato”, che privatizzano i profitti e socializzano le perdite) e l’immobilismo “trasformistico” di una innovazione istituzionale che è conservazione dei soliti rapporti di potere.

3) Beppe, tu hai esperienza di ricercatore, docente e formatore. Cosa hai trovato facendo formazione a chi lavora negli enti locali, oltre al rischio di una mancanza di senso del lavoro pubblico (ben raccontata dal film “La febbre”di D’Alatri) e l’atmosfera bloccata come una nevrosi mal curata, da gita scolastica?

Al netto dei profili più negativi e oscuri, epperò diffusi, cui fai riferimento, ho avuto la sensazione di incontrare sia tanta frustrazione, un poco passiva, che altrettanta consapevolezza di avere delle occasioni di trasformazione, ma troppo spesso perse e/o non valorizzate collettivamente. Inutile negare ci sia una certa sensazione di impotenza in una parte di chi ha alle spalle magari decenni di impiego pubblico, forse troppo sacrificato nell’immobilismo o in una eccessiva subordinazione gerarchica al comando burocratico-amministrativo. Al contempo, soprattutto in questo decennio di insicurezza economico-sociale, si è in parte acuita una strana consapevolezza di essere comunque “fortunati” nell’avere un posto di lavoro stabile, generando una doppia, divergente tendenza. Da una parte nell’abbassare qualsiasi pretesa migliorativa poiché, appunto, l’ordine del discorso globale ti descrive come già “fortunato” nell’avere un lavoro. Dall’altra mi pare si sia invece parzialmente avviata una presa di coscienza della funzione centrale di “servizio sociale collettivo” che il dipendente pubblico, a partire dagli enti locali appunto, svolge, soprattutto in una prolungata fase di peggioramento delle condizioni di vita della gran parte di quel “ceto medio” al quale appartiene l’impiegato pubblico. La sensazione è che però tutto si perda tra mancata valorizzazione delle potenzialità, visione punitiva delle recenti riforme della PA, mantenimento di ingiustificate sacche di privilegio e procedure amministrative ancora troppo vessatorie, lasciando sullo sfondo le pur esistenti “buone pratiche” diffuse in diversi ambiti, ma portate avanti solo dalla buona volontà di chile realizza. Insomma pensare ad una prospettiva di reale promozione di processi di modernizzazione della PA, che favorisca una visione positiva, da premiare, dell’impiego pubblico, in un nuovo rapporto virtuoso tra PA, enti locali e società che si auto-organizza in tensione positiva con le istituzioni locali, soprattutto dinanzi a possibili economie sociali, circolari, della condivisione, etc. promosse dall’innovazione sociale nei diversi territori, permetterebbe di sganciare il servizio pubblico da una mentalità ancora verticistica e burocratica, per diffondere processi orizzontali di promozione di un buon vivere associato, che dovrebbe essere il primo e fondamentale obiettivo dell’azione amministrativa quotidiana, nella comune affermazione di “servizi pubblici di qualità” per una nuova cittadinanza sociale. Avendo la comune consapevolezza che le istituzioni pubbliche sono “inventate” dall’essere umano in società per ottenere migliori condizioni di vita collettiva e auto-realizzazione individuale, nella reciproca fiducia solidale, tra diritti e doveri dei singoli e delle formazioni sociali. Mi pare che purtroppo però permanga una certa sospensione tra passivo immobilismo e solo occasionale innesco di un possibile cambiamento, che troppo spesso non viene favorito da nessuno: né dal basso di una moltitudine di impiegati che si sente poco “valorizzata” e che magari preferisce ripiegare in una certa passività/invisibilità; né dal vertice politico-amministrativo a volte eccessivamente staccato dal quotidiano vivere del faticoso rapporto tra cittadini e amministrazione. Con una mentalità diffusa delle classi dirigenti, magari non generalizzata, ma temo ancora maggioritaria, costretta in una “gabbia d’acciaio” di altri tempi istituzionali, economici, amministrativi.

4)Parlando di produzione non si possono ignorare Marx e i marxisti più intelligenti. In Marx, il lavoro dei servizi (oggi potrebbe essere anche il lavoro pubblico) è raro sia considerato produttivo. Lo fa il capitolo VI inedito de “IL capitale”, lo fanno i Grundrisse. Tra i nostri contemporanei, partendo da spunti marxiani, Visconte Grisi in”Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo” sostiene che crescita abnorme dei servizi e della finanza indicano la crisi strutturale del capitalismo. All’opposto, in ‘Lessico Marxiano’, nel saggio “Lavoro produttivo e improduttivo” Negri considera produttivo il lavoro che esprime soggettività-cooperazione-socialità. Il lavoro nei servizi, compresi i servizi pubblici, è produttivo? Riconoscerlo con solidi argomenti può servire a spezzare l’assedio?

Questa è una domanda (ma certo anche le altre) che necessiterebbe di un intero libro di analisi e risposte, rispetto alle quali non sarei neanche all’altezza, tra l’altro. Ma, insomma, come si fa ancora oggi a discettare di lavoro produttivo e improduttivo? Voglio dire, basta rileggersi il Luciano Bianciardi dei “terziari che sono già quartari” (passaggio anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, con la trilogia, Lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra, figura che abbiamo provato a interrogare anche con Alessandro Guerra in Un precario contro il sistema. Ricordando Luciano Bianciardi) per rendersi conto che le forze dominanti del capitalismo e i protagonisti del “lavoro culturale”, già sessanta anni fa, avevano ben compreso lo snodo della “società della conoscenza e dei servizi”, dei lavoratori della conoscenza, Knowledge Workers (P.F. Drucker, addirittura negli anni Cinquanta), mentre la sinistra politica e sindacale ancora inseguiva il ritornello incantato e dogmatico di una vulgata marxista persa in una lettura totalmente inadeguata della società. Taglio tutto con l’accetta e, riprenderei una certa lettura del Marx del Frammento sulle macchine (che non a caso fu tradotto in italiano, su richiesta di un eretico del pensiero socialista come Raniero Panzieri,dal grande Renato Solmi per pubblicarlo sui Quaderni Rossi dello stesso Panzieri nel 1964, rivista altrettanto eretica rispetto ai partiti social-comunisti italiani) e della centralità del lavoro cognitivo in quel capitalismo dell’economia/società post-industriale, della conoscenza, della comunicazione, del post-fordismo, dell’immateriale, dei servizi, del finanz-capitalismo, del capitalismo acefalo, etc. (ognuno lo chiami come meglio crede) in cui è la vita stessa (le passioni, gli interessi, le relazioni, l’immaginario, la cura, etc.) che è messa al lavoro e a profitto, sempre meno per se stessi e le proprie relazioni sociali, sempre più per altri, che siano i “signori del silicio” (Evgeny Morozov), i più tradizionali detentori di vecchie e nuove rendite di posizione, una pervasiva malavita globale, classi dirigenti senza scrupoli, che continuano a legittimare il “dominio dell’uomo sull’uomo”, per riprendere una formula assai duramente contestata dai libertari di tutte le latitudini e di tutte le epoche. Si tratterebbe di innovare un pensiero critico libertario, garantista, sociale che pure ha una sua tradizione “italica”, europea, globale, nel senso di poter combinare l’orizzontalità della solidarietà e dell’autorganizzazione sociale ed economica con la verticalità di processi di diffusione e condivisione dei saperi, delle conoscenze, delle buone pratiche, ma questa tendenza sembra più diffusa (seppure dinanzi a possibili ambiguità) tra gli “innovatori sociali” che tra i soggetti politici o sindacali di quel che rimane della “sinistra”.

5) Una importante figura di Usi, Camillo Berneri, ne “L’operaiolatria” individua le classi rivoluzionarie nei contadini e nelle minoranze borghesi come Gramsci, Gobetti, Ernesto Rossi….. senza arrivare alla loro irripetibile eccellenza, i piccoli borghesi, oggi, potrebbero essere gli impiegati pubblici: sono in via di proletarizzazione, ma restano ancora borghesi per tipo di lavoro, formazione, stili di vita. È possibile un soggetto sindacalista rivoluzionario nel p.i., che apra spazi di autonomia e svolga un controllo efficace della cosa pubblica? Quali caratteristiche potrebbe avere, cercando dei segnali nella realtà concreta? Quali sono gli elementi di attualità di Camillo Berneri?

Sulla figura di Camillo Berneri, come per certi versi su quella, di una generazione precedente, di Francesco Saverio Merlino (1856-1930), è necessario tornare con più calma e potremmo organizzare una prossima occasione di discussione e incontro in questo senso, per ragionare su come recuperare l’attenzione collettiva rispetto a quei decenni di crisi dello Stato liberale monoclasse, in cui le forze culturali e politiche repubblicane, socialiste, anarchiche, federalistiche, democratico-radicali pensarono e provarono a realizzare uno spazio possibile per un “costituzionalismo dell’eguale e giusta libertà” (come mi è capitato di scrivere altrove), inventandosi pratiche e istituzioni di promozione dell’autonomia collettiva e della solidarietà sociale, senza sacrificare la libera indipendenza ed autonomia. Ad ogni modo, in prima battuta, il riferimento a Camillo Berneri – e alla sua visione pluralistica e inclusiva delle trasformazioni sociali ed economiche, con particolare attenzione al concreto evolversi delle dinamiche e dei rapporti sociali, fuori da ottusi dogmatismi – torna di attualità anche per noi che ci siamo occupati, con Roberto Ciccarelli, di quella condizione di “Quinto stato” (2013) che dai contadini e disoccupati dell’Italia liberale si estende ai soggetti esclusi dalla cittadinanza sociale nel patto costituzionale e nazionale capitale-lavoro e ora (nella progressiva crisi del diritto del lavoro e del modello sociale europeo) parla a tutta quella fetta di società sospesa tra precariato, assenza e/o intermittenza di reddito e lavoro, impoverimento generalizzato nelle condizioni di vita e nell’accesso a servizi pubblici di qualità (oltre, accanto e al di là del terzo stato borghese e del ceto medio, del quarto stato delle “classi operaie” e del sotto-proletariato urbano e metropolitano). È il tempo di ripensare gli insegnamenti e le pratiche dei “quintari” della crisi di fine secolo, tra Ottocento e Novecento prima dello Stato sociale pluriclasse (a partire da Merlino e Berneri, appunto), insieme con chi oggi pensa e progetta gli spazi di una teoria generale del precariato (Alex Foti, General Theory of Precariat) e della condizione di “quinto stato” dentro/contro i fallimenti degli Stati costituzionali nazionali del secondo dopoguerra. Rifiutando, anzi combattendo, le scorciatoie qualunquiste, plebiscitarie, tardo-populiste delle “guerre tra poveri” e delle chiusure identitarie, nazionaliste, localiste, xenofobe, che speculano sulle paure e sull’individualizzazione dei rischi sociali e che gran parte della pubblicistica chiama “populismo”, ma io definirei piuttosto come neo-nazionalismi plebiscitari e identitari.

6) Tu sei un cultore di Alceste De Ambris, storico segretario di Usi. Non c’è da nascondersi alcuni suoi errori (l’interventismo nella prima guerra mondiale), ma il tempo fa risaltare la sua grandezza e l’onestà intellettuale. De Ambris esercita un potere destituente (contro il riformismo del Psi; il parlamentarismo; la monarchia; il fascismo) e un potere costituente (costituisce il sindacalismo d’azione diretta in un sistema federativo di camere del lavoro, cioè l’USI; scrive la costituzione di Fiume). Ci vuoi dire del tuo rapporto con De Ambris e delle chiavi di lettura che trovi più efficaci nell’azione di De Ambris?

Ecco un’altra figura intorno alla quale è davvero necessario riflettere collettivamente, quell’Alceste De Ambris che si trova temporalmente a metà (nacque nel 1874) rispetto alle altre due figure evocate poco sopra, essendo di vent’anni più giovane di Merlino e quindi di vent’anni più grande di Berneri, che era del 1897. Carbonaro, mazziniano, repubblicano, sindacalista rivoluzionario, anarchico, instancabile attivista e cospiratore, fondatore dell’Unione Sindacale Italiana, successivamente antifascista esiliato in Francia, dove morì nel 1934 dopo aver contribuito ai lavori della Lega Internazionale dei Diritti Umani (LIDU) e promotore di quella che egli chiama «Repubblica del Carnaro», mentre le correzioni letterarie e poetiche di Gabriele D’Annunzio, che lesse pubblicamente il nuovo testo costituzionale nel teatro La Fenice di Fiume il 30 agosto 1920, porteranno alla definizione della «Reggenza del Carnaro» (me ne sono occupato proprio in questo àmbito, in uno studio su L’arte rivoluzionaria dei mutamenti sociali nelle città d’Europa. Il costituzionalismo a venire dal 1848).Per me rimane fondamentale il suo apporto in quel tentativo costituente, quella festa della rivoluzione permanente di una nuova utopia pirata (Claudia Solaris, ma anche Hakim Bey) che furono i mesi di Fiume, esperienza certo contraddittoria, ma della quale non si può sottolineare, proprio nell’attivismo di De Ambris, l’azzardo costituzional-costituente di recuperare il protagonismo sociale presente nei testi e nelle pratiche della Repubblica romana del 1849 (la “Roma senza Papa”!) e il fermento di una nuova giustizia sociale diffuso nell’immediato primo dopoguerra tra la nascente Repubblica di Weimar e il biennio rosso europeo. Nella visione di De Ambris, Fiume è l’invenzione di una prima “città libera” nella tensione di una Repubblica federata sulla libera associazione di comuni che si autogovernano (recuperando la “tradizione comunarda”), in cui mettere in relazione produttiva tradizione civica del municipalismo,principio federativo e questione sociale a partire dal «lavoro produttivo», sancendo la “funzione sociale” della proprietà, nel senso di un diritto costituzionale sociale che solo nel secondo Novecento troverà una sua parziale e lacunosa “cittadinanza”. Ma soprattutto De Ambris, qui d’accordo con D’Annunzio, assegna una funzione preminente alla libera attività umana, come sintetizzato nella previsione costituzionale di una decima corporazione delle attività lavorative ed operose, che «non ha arte, né novero, né vocabolo», consacrata al «genio ignoto», «all’apparizione dell’uomo novissimo», «alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue»: «una forma spiritualizzata del lavoro umano» definita «fatica senza fatica». Nel concreto è il primo, inedito, tentativo di “costituzionalizzare” una tutela universalistica di tutte le attività operose, manuali e intellettuali, che trovano cittadinanza nelle istituzioni pubbliche e nelle corporazioni, «qualunque sia la specie del lavoro fornito, di mano o d’ingegno, d’industria o d’arte, di ordinamento o di eseguimento» (art. XVII), anche attraverso le innovazioni del lavoro cognitivo, intellettuale e il consequente progresso tecnologico, che permette di porre al centro di una nuova idea di società la libera operosità dell’essere umano (ed eccoci allora, già cento anni fa, pronti a superare la per certi versi falsa dicotomia lavoro produttivo/improduttivo). Così si definisce un assetto di garanzie universali, con meccanismi assai innovativi nell’ambito degli strumenti di sicurezza sociale, che neanche l’esperienza costituzionale repubblicana introdurrà, come la definizione di un salario minimo, «bastevole a ben vivere», e di un reddito di esistenza, anche per la condizione di disoccupazione («l’assistenza nelle infermità, nella invalitudine, nella disoccupazione involontaria»; istituti contenuti nell’art. VIII). È la previsione di una cittadinanza sociale che includa tutte le forme dei lavori e tuteli non solo la dignità dell’essere umano, ma «il ben vivere», al di là dell’impiego e del lavoro sotto padrone: una scelta in favore di una reale libertà per tutti, che rimarrà assai minoritaria, non solo nella storia delle nostre istituzioni politiche e sociali, ma anche nel dibattito pubblico. Perché una reale libertà per tutti vuol dire l’introduzione di un reddito di base universale (Universal Basic Income – UBI) per la garanzia di una buona vita, degna dell’essere umano in società, ancor più dinanzi all’accelerazione subita dalle innovazioni sociali e tecnologiche nell’attuale passaggio di secolo. Per questo Alceste De Ambris, Camillo Berneri e Francesco Saverio Merlino parlano ancora a noi, forse con maggiore aderenza alla realtà di tanti nostri contemporanei, senza il pericolo di un rimpianto da “retrotopia” (per dirla con il compiango Zygmunt Bauman, nel senso di una sinistra che rimpiange il “piccolo mondo antico” di un’epoca d’oro che mai fu effettivamente “d’oro”), ma per essere più attrezzati a trasformare il presente e fare leva su “utopie per realisti” (Rutger Bregman), a partire dal reddito universale di base inteso come assicurazione sociale nell’epoca digitale e dell’automazione prossima ventura (dopo e oltre il modello bismarckiano e quello à la Beveridge), per una visione sociale post-capitalistica!

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