La lezione dell’Islanda RIBELLARSI DI FRONTE AI MERCATI PER USCIRE DALLA CRISI
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I governi dell’Unione Europea stanno applicando politiche di tagli al bilancio, riduzione delle protezioni sociali ed eliminazione dei diritti del lavoro. Tutto ciò, a quanto dicono, con l’intenzione di “tranquillizzare i mercati”. E´questa la ragione data da Zapatero, tra gli altri, per giustificare il taglio dei salari del personale al servizio dell’amministrazione, il congelamento delle pensioni quest’anno, la riforma del lavoro, la riforma delle pensioni, la riforma delle contrattazioni collettive, l’imposizione di una cifra di tetto per la spesa pubblica per l’anno che viene inferiore a quella di quest’anno. Questa stessa ragione è quella che ha diretto i tagli in Grecia, Portogallo, Irlanda, Regno Unito, Italia, ecc.
La conseguenza diretta di queste politiche è l’aumento della disoccupazione, l’impoverimento della popolazione e una ricomposizione dei benefici delle imprese. Nonostante questo però, i “mercati” non sono soddisfatti, non lo sono mai, non lo saranno mai.
Per ELA è evidente che l’unica forma di uscire dalla crisi è di uscire dalla disciplina dei mercati. Vale a dire, imporre gli interessi della popolazione al di sopra di quelli del capitale. Finché non si faccia questo, le cose andranno di male in peggio, al meno per l’immensa maggioranza che presuppone la classe operaia.
C’è chi considera che questo è un’utopia. Tuttavia quello che è avvenuto in Islanda mostra che esiste un’uscita diversa dalla crisi.
Poco prima che la crisi colpisse l’Islanda, era un esempio da copiare. Un’isola con 320 000 abitanti, con un alto livello di vita, buone infrastrutture, un’energia pulita, con u eccezionale stato del benessere, scarsa disoccupazione e poco debito. Era una delle economie di punta d’Europa, la sesta nazione più ricca della OCSE.
In poco meno di dieci anni le politiche neo-liberali hanno affondato questo paese modello. Nell’anno 2000 il governo islandese avviò una politica di deregulation che avrebbe comportato più tardi conseguenze disastrose sia al livello ambientale che a quello sociale. Il governo aprì le porte a imprese multinazionali che si preoccupano solamente della massimizzazione dei loro benefici a costo del degrado ambientale e sociale. Nel 2003 decise inoltre di privatizzare le tre banche più rappresentative dell’isola: Islandsbanki, Kaupbing e Glitnir. Il risultato dell’esperimento fu la più pura deregulation bancaria che sarebbe sfociata nel 2008 in una crisi economica e sociale che superò l’immaginazione. Le finanze controllarono la vita quotidiana dell’Islanda rovinando il paese.
La deregulation bancaria
In un periodo di cinque anni queste tre banche, che non avevano mai operato fuori dall’isola, traversarono le frontiere e per farlo chiesero un prestito di 120 mila milioni di dollari. Si indebitarono per dieci volte il valore dell’economia islandese di allora. La conseguenze non si fecero aspettare. Nasce la casta dei grandi milionari. I prezzi delle case raddoppiarono e il valore della borsa aumentò di nove volt eil proprio valore. Si crearono fondi per poter soddisfare i prestiti fatti a milionari e dirigenti di imprese e le banche consigliarono di ritirare i depositi e depositarli in questi fondi. Questo sistema che si costituì richiedeva enormi somme di denaro. Le agenzie qualificanti degli USA elogiavano l’Islanda attribuendole la qualifica più alta. Ditte statunitensi come la KPMG, che analizzarono le banche islandesi, emettevano relazioni favorevoli.
Gli effetti della deregulation
Però, come in tanti altri casi, le agenzie qualificanti e gli istituti finanziari hanno contribuito al disastro. Nel 2000 scoppiò la bolla di sapone che con il passar del tempo si era fatta sempre più grande. Le banche fecero fallimento con perdite bancarie di oltre 100 mila milioni di dollari. La disoccupazione in sei mesi si triplicò passando dal 3% a fine del 2008 al 9,1% nel giugno del 2009. Dato che il governo non protesse i cittadini, la gente perse i propri risparmi.
Le banche islandesi si indebitarono massicciamente a breve scadenza allo scopo di fare inversioni a lunga scadenza. Ci furono momenti nel 2008 nei quali dovevano 500 mila corone islandesi (una quantità equivalente a oltre il 33% del PIB del paese) a tre mesi di scadenza, e questo era più del denaro di cui potevano disporre nello stesso lasso di tempo. La maggior parte del denaro preso in prestito proveniva da fuori l’Islanda. Gli speculatori capitalisti chiedevano denaro in prestito fuori dall’Islanda (euro, dollari, libre e corone norvegesi) a tassi bassi di interesse in cambio di corone islandesi per poi prestarlo a tassi di interesse più elevati alle banche, le imprese e i singoli islandesi. Approssimativamente il 70% del debito delle banche islandesi era in moneta estera.
Vale a dire che ottengono grossi benefici prendendo in prestito al tasso basso e invertendolo in alto. Le obbligazioni delle banche però scadevano molto prima dei loro diritti, portando ad un problema di liquidità che terminò nella sospensione dei pagamenti. Se poi si aggiunge a tutto ciò l’effetto del tasso di cambio, il problema si aggrava ulteriormente. Una simile strategia si sopporta grazie alla manipolazione che esercitano le banche centrali sul denaro in corso e quando finisce col distorcere la struttura dell’economia, la soluzione è sempre la stessa: un riaggiustamento sotto forma di crisi.
La banca centrale islandese non aveva riserve in valuta estera sufficienti per far fronte alle sue obbligazioni (il debito islandese superava 32 volte le riserve summenzionate). Per ottenere la liquidità, la dipendenza delle banche islandesi dai mercati esteri era totale. A partire dal 2006 l’Islanda cominci ad avere seri problemi ad affrontare il proprio debito e la banca centrale decide di aumentare i tassi di interesse fino al 12,75%. Nell’estate del 2007 la mancanza di liquidità è allarmante e le banche islandesi cominciano a chiedere in prestito corone islandesi per scambiarle con altre divise, il che provoca che già nel marzo del 2008 la moneta nazionale perde il 30% del suo valore sull’euro.
Cuando fallisce la Lehman Brothers e il credito si restringe, le tre banche islandesi dichiarano la sospensione dei pagamenti. Questi fallimenti portarono ad un ulteriore deprezzamento della corona islandese, che perse infatti il 60% del suo valore, il che raddoppia il costo del debito in valute estere. Crolla anche il mercato della borsa. Sottolineiamo, come un dato significativo, che il 15 ottobre 2008 l’indice della borsa passa dai 3.004 punti ai 678.
Le banche islandesi non erano esposte alle ipoteche spazzatura quando scoppiò la crisi però erano immerse nella bolla di spone della speculazione sperimentata dal capitalismo mondiale. La storia d’Islanda si può extrapolare alla storia finanziaria del mondo che ha rovinato milioni di persone e paesi interi.
Effetti della crisi islandese
Di fronte a questa situazione la Islandsbanki è stata nazionalizzata e posteriormente le altre due grandi banche, Kaupbing e Glifnir passano nelle mani dello Stato. I principali clienti di questi istituti bancari appartenevano all’Olanda, la Gran Bretagna e la stessa Islanda. Era impossibile affrontare il debito e il Governo chiese l’intervento del FMI che concesse un prestito di 2.100 milioni di dollari (il 3% del debito estero islandese).
Come è ben noto, questi creduti vengono concessi a cambio di severe politiche di austerità, con tagli sociali e alti tassi di disoccupazione. E`quello che si nasconde dietro la qualifica di “riscatto”. Inoltre questo denaro ottenuto dal FMI sarebbe stato destinato a pagare il debito olandese e britannico.
Fu allora però che scoppiò la rivoluzione del popolo islandese. La popolazione non era disposta ad assistere alla riduzione dei propri diritti in conseguenza dell’applicazione di politiche di austerità e tagli sociali. Decine di migliaia di persone scesero in piazza.
Rivoluzione in Islanda
Comincia qui una vera e propria rivoluzione, dato che la pressione sociale ha ottenuto che il Governo del momento desse le dimissioni e si convocassero elezioni anticipate, che ebbero per risultato un cambio di direzione verso la sinistra. Il nuovo Governo però propose nuovamente la restituzione del debito olandese e britannico. Il popolo si oppose ai piani accordati dal governo e dal FMI, per mezzo di un referendum celebrato nel marzo del 2010, nel quale il 93,2% dei voti erano contrari a tale proposta.
Nell’aprile del 2011 si celebrò un secondo referendum per accettare o no il pagamento dei debito che le banche avevano con il Regno Unito e l’Olanda. Il risultato di questo secondo referendum fu meno ampio del precedente ma comunque il 58,8% dei voti rifiutarono nuovamente di accettare il pagamento di tale debito.
Vale la pena di sottolineare due aspetti di quello che sta succedendo in Islanda:
· Al momento attuale il popolo islandese sta lavorando alla riforma della Costitutzione, dato che il suo contenuto globale non era mai stato anteriormente rivisto.Si sono create assemblee popolari per accogliere le petizioni degli abitanti e si intende arrivare per consenso in queste assemblee, celebrate in tutto il paese, ad un testo iniziale. Lo scritto finale verrà presentato in Parlamento e una volta approvata costituirà la nuova Magna Carta d’Islanda.
· A differenza di quanto succede nel resto d’Europa, quattro alte cariche delle principali banche islandesi sono state messe in carcere e il Presidente del Consiglio anteriore, Geir H. Haarde,e sotto giudizio accusato di grave negligenza per la sua gestione della crisi.
Conclusioni di quanto è successo in Islanda
Quanto è successo in Islanda permette di trarre le seguenti conclusioni:
1. L’applicazione delle politiche neoliberali porta alla rovina
L’applicazione delle politiche neoliberali, basate sulla deregulation e la speculazione finanziaria, hanno portato alla rovina l’economia islandese. E´una situazione molto simile a quella che stiamo vivendo nei diversi stati dell’Unione Europea, dove i governi si ostinano a intensificare le politiche più conservatrici mediante tagli successivi e ripetuti. Questa strada porta ad una via senza uscita.
2. L’uscita dalla crisi presuppone un cambio totale delle politiche ed un confronto con le esigenze del potere finanziario
In Islanda hanno respinto il ricatto dei “mercati”, del potere finanziario, e hanno scelto politiche diverse. Di fronte ai pronostici che predicevano il caos, la realtà è che la situazione sta migliorando: dopo due anni di contrazione, si stima che il PIB sperimenti un incremento del 2,5% alla fine del 2011. L’inflazione, che nel 2008 e 2009 raggiungeva quasi il 13%, sta al 4% nel giugno del 2011 ( e si stima che scenda al 2,2% alla fine dell’anno). Il tasso di disoccupazione sta diminuendo ( è attualmente del 8,6%, e si prevede che alla fine dell’anno sarà del 7,4%, e del 5,2% nel 2013). D’altra parte anche il potere d’acquisto sperimenterà un incremento del 2,0% nel 2011.
Quanto è successo in Islanda non è un esempio isolato. Altri governi, sottoposti al ricatto dei mercati (rgentina o Ecuador, per esempio) hanno deciso, nella storia recente, di far pagare la crisi del debito a coloro che hanno collaborato molto attivamente a generarla, ricavando a loro volta vantaggi dalla crisi stessa. E i risultati di tali decisioni danno loro ragione.
3. La mobilizzazione sociale è la strada giusta per cambiare le politiche
Il popolo islandese ha saputo dare una lezione a tutta l’Europa, ha sopportato la pressione internazionale che esigeva l’intero pagamento ai due governi del 5.400 milioni di dollari che olandesi e britanni ci avevano depositato nei loro istituti finanziari. Hanno affrontato il sistema mediante mobilizzazioni, riuscendo a far sí che le politiche decise dai governi rimanessero senza effetto. Hanno mostrato che l’approfondimento della democrazia è uno strumento al servizio degli interessi della società, e che questo è qualcosa che va molto più in là che votare ogni quattro anni.
Idoia Intxaurbe e Mikel Noval sono membri del Centro Studi di ELA.
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Traduzione dallo spagnolo a cura di Antonella Dolci.