PINELLI, L’AUTUNNO CALDO E LE STRAGI DI STATO
Il ferroviere non ha seguito i poliziotti, ha preferito andare in questura col suo motorino che parcheggia nei pressi dell’edificio. Sale rampe di interminabili scalini e quando apre la porta si trova davanti…a una finestra aperta.
Da allora non si è più richiusa, hanno impedito a chiunque di avvicinarsi. Come un insaziabile buco nero quella maledetta finestra, aperta nel gelido inverno milanese del 1969, in questi quarant’anni ha divorato tutti e tutto: ha ingoiato i misteri di due repubbliche (e già si appresta a fagocitarsi anche quelli della terza già in cantiere), sono scomparsi nel buco tutti i perché e le verità scomode della storia di diverse generazioni. Volatizzate le stragi e i loro responsabili, i servizi più o meno segreti, le logge di affaristi e di golpisti, i furti e i soprusi dei potenti ,la tracotanza dei padroni e il tradimento dei sindacati, la rabbia per quei carichi di uomini fatti affondare e per quei lager dove barbaramente rinchiudono gli immigrati, le risposte sulla morte di Soledad ed Edo, la giustizia negata contro i carnefici in divisa di Genova e Bolzaneto e…. tanto altro
Il cammino contemporaneo di questo paese (coi suoi segreti e i mille interrogativi irrisolti) passa da quella finestra, aperta pochi giorni dopo la strage del 12 dicembre. Davanti a quel vuoto viene portato il corpo dell’anarchico Giuseppe Pinelli, probabilmente ucciso pochi minuti prima durante un’ interrogatorio in quella stanza della questura milanese. Il corpo è gettato giù e la finestra è stata lasciata aperta. E quel buco nero, inquietante e costante presenza, ha accompagnato, condizionandoli, gli avvenimenti che si sono succeduti fino ad oggi.
Capire cosa si è voluto colpire in quell’inverno del ’69 (con la strage e poi con l’uccisione di Pino) ci serve per tanti motivi. Memoria storica, volontà di giustizia, rabbia proletaria mai sopita ma anche, e soprattutto, per comprendere il presente che, con un lungo percorso di quarantanni, anche di quei fatti è diretta conseguenza, per poter infine guardare in modo diverso al domani.
A questo impegno, di lotta, di ricerca e di controinformazione, l’archivio U.S.I. vuole dare il suo contributo con questo primo articolo che ripercorre il periodo storico che portò negli anni sessanta all’esplosione dell’autunno caldo e all’affermazione dell’autonomia proletaria e, successivamente, alla strage di stato (la prima di una lunga serie) e a un periodo di fortissime lotte sociali (anni settanta) accompagnate dal lavoro di controinformazione e di denuncia politica sulle responsabilità della strage e dell’assassinio di Pinelli.
Siamo parte in causa di quei fatti e di questa storia. La figura di Pinelli e le lotte seguenti si intrecciano di continuo con la storia del nostro sindacato e non sarà un caso che un’ulteriore riattivazione dell’U.S.I.,l’attuale, coinciderà proprio con uno sbocco autorganizzativo che si darà una parte del movimento di classe degli anni settanta.
DAL LUGLIO GENOVESE A PIAZZA STATUTO
All’inizio degli anni sessanta importanti avvenimenti cambiano il volto dell’Italia. Il cosiddetto “miracolo economico” porta il capitalismo industriale italiano ad entrare in competizione con i maggiori poli industriali internazionali. Nelle fabbriche nuovi sistemi di produzione danno vita a fasce di ristretti gruppi di lavoratori specializzati e di una massa dequalificata impegnata nelle catene di montaggio (operaio massa). Questo tipo di lavoro ha bisogno di tante braccia ed ecco che una quantità di giovani (disoccupati, braccianti, ecc.) si sposta dal sud verso le fabbriche del nord.
Il capitale, tramite i suoi apparati statali, adegua governi e progetti politici alle esigenze dettate dalla sua espansione e competitività. Il tutto all’interno di una situazione internazionale caratterizzata ancora dallo scontro tra i due grandi blocchi e, per l’Italia, dalla presenza costante (e a volte sanguinaria) della CIA sul territorio e sulla politica economica e sociale.
Si succedono quindi tentativi di apertura “a sinistra” (il primo governo di centro-sinistra si forma nel 1963) con l’intento di garantire quel controllo e quella pace sociale funzionale al capitale, alternate a lunghe svolte di governi capaci nella carta di imporre l’ordine poliziesco e reprimere le lotte proletarie (dal governo Tambroni del ’60 messo in piedi grazie all’apporto determinante dei fascisti dell’MSI fino ai tanti monocolori della destra democristiana). Non mancano poi vari tentativi golpisti che si intrecciano (dal ’69 in poi) con la strategia delle stragi di stato.
Centro-sinistra, centro-destra e bombe dei padroni non cambiano l’asse centrale della linea dei padroni: sfruttamento intensivo, attacco alle condizioni di vita dei lavoratori e repressione violenta di ogni forma di dissenso. La sinistra al potere si dimostra oppressiva e funzionale ai poteri forti come la destra.
Mutano invece, nel corso di questi anni, natura e obiettivi delle lotte sindacali e sociali, mentre nuovi soggetti proletari e originali modelli autorganizzativi di autodifesa si affacciano sul teatro dello scontro di classe.
Le grandi mobilitazioni degli anni successivi la lotta per la liberazione coinvolgono masse di operai, braccianti, disoccupati e pensionati in asprissimi conflitti sociali in cui la direzione del movimento è in mano principalmente al PCI e alla CGIL che operano anche per impedire la radicalizzazione dello scontro e la sua esplosione in modelli di tipo insurrezionale e rivoluzionario.
La lotta (e spesso il sangue dei lavoratori uccisi) spesso serve al PCI per la sua linea istituzionale e per poter tornare a gestire dei pezzi di quel potere nazionale (quello locale lo ottiene in alcune regioni) negato dalla Democrazia Cristiana e dagli Stati Uniti.
L’antifascismo e il mito della resistenza cementano di fatto questo lungo periodo di lotte. I fatti del luglio del 1960 segnano il punto più alto di questa fase e, contemporaneamente annunciano già quei cambiamenti che modificheranno fortemente il movimento conflittuale e sociale degli anni successivi.
Nel 1960 Genova insorge per impedire lo svolgersi in città del congresso dell’MSI. Il partito neofascista (utilizzato anche precedentemente dal regime democristiano) col voto determinante per sorreggere il governo Tambroni rientra nel grande gioco politico italiano con uno “sdoganamento” che di fatto anticipa quello che sarebbe avvenuto con Berlusconi negli anni novanta. Ma nel 1960 questo non poteva ancora succedere e dopo Genova, la protesta dilaga in tutt’Italia con scioperi, manifestazioni e scontri con la polizia che culminano con gli eccidi di Reggio Emilia, Licata, Palermo e Catania (11 dimostranti uccisi dalla sbirraglia). La protesta non si placa e alla fine Tambroni è costretto a dare le dimissioni.
Nel movimento genovese dell’estate del sessanta sono ben presenti i sindacalisti rivoluzionari dell’U.S.I. (sindacato che nel capoluogo ligure ha il suo principale centro operativo nazionale e una discreta rappresentanza tra gli operai delle principali fabbriche) e i gruppi anarchici ben diffusi in tutta la Liguria. Umberto Marzocchi tiene in quei giorni numerosi interventi davanti a migliaia di antifascisti (a Vado Ligure, Savona, ai ferrovieri di Genova Sampierdarena, ecc.) e trova ovunque forti consensi per le indicazioni di lotta degli anarchici.
L’U.S.I. da parte sua registra nel genovesato una fase di ulteriore radicamento negli anni immediatamente successivi ai fatti del luglio (1961-’62) consolidando il suo intervento all’interno delle fabbriche (Ansaldo, Stabilimento Metallurgico Ligure,ecc.). Altri punti di consistenza del sindacato libertario sono le tradizionali aree toscane come Carrara, Piombino (dove nel maggio del 1961 l’USI tiene il suo III° Congresso nazionale dalla riattivazione del dopoguerra), Livorno, l’Elba e la Maremma. Una, pur piccola ma importante sezione dell’U.S.I. opera a Torino (tra i militanti più attivi ricordiamo Luigi Assandri). La città di Torino con la FIAT e i suoi nuovi modelli di sviluppo, sono al centro di quelle nuove lotte (in cui protagonisti sono gli operai immigrati dal sud) che rivoluzionano il tessuto sociale e la conflittualità sindacale italiana mettendo in grave crisi lo stesso controllo dei sindacati confederali sulla classe operaia.
Stesso mese (luglio) due anni dopo (1962). A Torino grandi scioperi investono non solo la FIAT ma anche le piccole fabbriche metalmeccaniche. Durante la fase più calda dell’agitazione la UIL e il sindacato padronale (SIDA) firmano un’accordo separato con la direzione FIAT. La lotta cresce e la rabbia esplode travolgendo tutte le forze in campo (CGIL e PCI compresi). Un corteo di operai della FIAT e di altre fabbriche raggiunge Piazza Statuto e assedia la sede della UIL. La manifestazione diventa guerriglia e si hanno tre giorni di durissima battaglia. Centinaia e centinaia sono i feriti, anche gravi, tra i dimostranti (la polizia lamenterà 169 feriti). Sistematici i pestaggi dei dimostranti fermati, massacri che avvengono sia in questura che in caserma. 1215 i fermati, 90 gli arrestati rinviati a giudizio per direttissima, un centinaio i denunciati a piede libero.
Che cosa era realmente successo a Torino? Probabilmente quelle giornate sanciscono la nascita di un nuovo movimento ribelle, non controllato dalla tradizionali centrali sindacali e partitiche della sinistra “ufficiale”. Un movimento che era già nato mesi prima con una capillare ragnatela di conflitti prima nelle piccole fabbriche e quindi alla FIAT, con picchetti e scontri davanti ai cancelli e con atti di sabotaggio che erano sfuggiti di mano alle burocrazie confederali. Salta quel modello di “cinghia di trasmissione” tra sindacato e partito che era stata il centro dell’egemonia comunista tra le masse. Non a caso per i fatti di Piazza Statuto la stampa borghese parla apertamente del pericolo di un “anarcosindacalismo” che potenzialmente può incanalare lo scontento degli operai e la loro voglia di autorganizzazione e d’azione diretta.
Il PCI torinese si trova travolto dalla bufera (molti suoi iscritti hanno partecipato agli scontri) e in molte sezioni si accusano i “provocatori fascisti” che hanno fomentato i disordini. In qualche festa dell’unità operai comunisti stracciano le tessere, rovesciano i banconi e fanno a botte coi dirigenti.
La CGIL cerca di recuperare quella”unità sindacale” (anche con la UIL) che si era frantumata con la guerriglia di luglio. Ma nel movimento le strade ormai si stanno dividendo, un vento nuovo comincia a soffiare, il vento del ’68 e dell’autunno caldo.
La sezione U.S.I. di Torino, che nel suo piccolo aveva partecipato alla lotta, elabora a caldo, in quel luglio del 1962, un importante documento “la lotta dei metallurgici torinesi: fatti e misfatti in Piazza Statuto” a cura di Gerardo Lattarulo (che aggiunge alla sua firma la dizione “militante dell’U.S.I.”).
Buona l’analisi e la ricostruzione dei fatti. Riportiamo il suo riepilogo finale:
“…con la lotta di piazza statuto Torino ha riscattato gli anni di umiliazione subite. I ragazzi, quei ragazzi che si sono generosamente battuti in piazza, sono stati definiti “teppaglia” da tutti i pennaioli di destra e di sinistra, da tutti i politici di destra e di sinistra che hanno sentito il bisogno, interrogando il governo per tranquillizzare le loro luride coscienze, di condannare il gesto generoso e spontaneo di ribellione dei “ragazzi” di piazza statuto: E’ stato detto che non erano tutti metallurgici, forse per i benpensanti della politica un operaio metallurgico è diverso da un muratore e da un tessile. Ebbene noi ci rallegriamo perché in piazza statuto c’erano i lavoratori di tutte le categorie, perché questo ci conferma che i lavoratori sanno, quando è necessario, unirsi e lottare per la causa comune”.
Negli anni che seguono i fatti di piazza statuto quel movimento, spontaneo e informe che aveva visto la luce a Torino, continua il suo percorso inserendosi (ma conservando sue autonome caratteristiche) nel più generale clima di contestazione che alla fine degli anni sessanta esplode in varie parti del mondo. A differenza di altri paesi (dove è predominante una matrice studentesca con non trascurabili condizionamenti provenienti dalla cultura borghese) in Italia il movimento si radicalizza più marcatamente in chiave classista. Così accanto alla contestazione studentesca del ’68 in Italia esplode (quando gli echi del maggio francese sono ormai solo un ricordo) una conflittualità operaia che si salda, nel territorio e nel sociale, alla rabbia delle fasce proletarie più emarginate.
In Italia (senza nulla togliere alle lotte studentesche di quegli anni) il movimento sessantottino non ha le sue origini dai campus delle università americane o dalla Sorbona parigina. Ha origini certo più umili ma anche tanto più salde e concrete. Nasce con i giovani operai e immigrati, con le mani piene di pietre da lanciare, accorsi a Piazza Statuto.
L’AUTUNNO CALDO NON FINISCE CON UNA SOLA STAGIONE
Torniamo per un attimo al movimento libertario e alla nostra piccola, ma reale U.S.I. degli anni sessanta, ci aiuterà ad avere informazioni per capire cosa succederà a Milano in quel freddo dicembre del ’69 e negli anni successivi.
La problematica del radicamento nel sociale e nelle rivendicazioni dei lavoratori è ben presente nel dibattito e nell’azione del movimento anarchico di quegli anni. La “questione organizzativa” provoca anche divisioni tra i compagni (come nel 1965 con la fuoruscita dalla FAI di una componente che darà vita ai GIA e con la crescita di nuovi gruppi non federati). Sulla collocazione sindacale dell’area libertaria assistiamo praticamente alla fine dell’esperienza dei Comitati di difesa Sindacale (corrente anarchica nella CGIL, asfissiata dalle componenti comunista e socialista) mentre l’U.S.I. (perso il treno di una grande riattivazione già nel 1945) stenta, fin dalla ricostruzione dei primi anni cinquanta, ad avere una dimensione nazionale concentrando l’attività principalmente nel genovesato (dove indubbiamente l’U.S.I. ha un suo peso effettivo)
e in aree della Toscana (più qualcosa a Torino e in Emilia). Indubbiamente troppo poco con in più una segreteria nazionale portata avanti da compagni bravissimi ma ormai avanti negli anni.
Si cerca quindi di dare nuova linfa all’esperienza U.S.I. che nel movimento libertario, e anche in area giovanile, acquista sempre più simpatie e disponibilità alla fine degli anni sessanta.
Da segnalare una forte ripresa dell’ U.S.I. dalla fine del 1964 nella zona di Carrara dove i cavatori del marmo dopo l’esperienza di un “Comitato d’Azione Diretta” costituiscono nel 1965, insieme ad altre categorie che si sono autorganizzate (chimici, metalmeccanici, edili, enti locali ed ospedalieri) un forte Comitato Provinciale dell’U.S.I.. Prestigiose figure come Marzocchi e Failla danno il loro grande contributo alla crescita dell’Unione.
Nell’aprile del 1967 proprio a Carrara viene celebrato il IV congresso nazionale dell’U.S.I. (dalla riattivazione del dopoguerra). Una scadenza importante sia per l’interesse suscitato e sia per le tematiche affrontate che investono (dando risposte valide) i grandi temi della conflittualità di classe del momento.
Con il sessantotto (e l’inizio del ’69) due grosse possibilità si aprono per la crescita dell’Unione: la scoperta dell’anarcosindacalismo da parte di molti giovani lavoratori e l’aggancio che l’U.S.I. può avere con la realtà di lotta milanese, centrale nel fenomeno dell’esplosione dell’autunno caldo.
Tra il settembre e il dicembre del 1969 la lotta operaia dilaga in tutto il nord. 32 contratti collettivi di lavoro sono in scadenza (circa cinque milioni di lavoratori entrano in sciopero) in un contesto sociale che vede i salari italiani tra i più bassi d’europa e condizioni di vita e di lavoro precarie e nocive per tanti operai. Egualitarismo salariale, riduzione dell’orario di lavoro, parità normativa operai impiegati, diritti sindacali, revisione norme malattie e infortuni. Questi alcuni qualificanti punti delle rivendicazioni.
Una massa di lavoratori in lotta non si riconosce più con i tradimenti, le truffe e i cedimenti imposti dai sindacati confederali e sostenute dai partiti della sinistra parlamentare. Ovunque prende corpo una prassi autogestionaria e d’azione diretta, gli operai si collegano agli studenti in lotta e le istanze del potere assembleare spazzano via le logore logiche verticistiche ed autoritarie dei sindacati confederali. E’ l’autunno caldo, un movimento che non durerà una sola stagione ma continuerà per gran parte degli anni settanta, tra alti e bassi, favorendo una conflittualità di classe in Italia che non avrà eguali in nessun paese occidentale.
Già nella primavera del ’68 nascono in alcune aziende i primi Comitati Unitari di Base (CUB), in aperto dissenso con la linea delle confederazioni sindacali. La crescita di queste forme d’autorganizzazione (che spesso, oltre al modello assembleare, riprendono forme di lotta basate sull’azione diretta) trova il suo terreno di sviluppo nell’autunno caldo del 1969 favorendo anche la formazione dei Consigli di Fabbrica (C.d.F.) e dei primi Consigli di Zona,.
E’ in questo clima incandescente, favorevole alla riproposizione dell’anarcosindacalismo, che un gruppo di lavoratori libertari (molti dei quali sono giovani) dà vita alla sezione Milanese dell’U.S.I.
La costituzione “ufficiale” avviene nell’aprile del 1969 anche se materiali e documenti a firma U.S.I. cominciano a essere diffusi a Milano fin da marzo. Tra gli organizzatori della sezione (che si chiamerà di Milano Bovisa) vi è il ferroviere Giuseppe Pinelli, partigiano e molto attivo nell’attività sindacale e libertaria. E’ Pino, con un altro compagno, che all’inizio dell’anno hanno preso contatto con la segreteria nazionale dell’Unione ed è Pinelli che, una volta che si è costituita la sezione U.S.I.,.ne diventa il responsabile.
L’intervento dell’U.S.I. Milanese si estende in vari campi che riguardano i problemi del mondo del lavoro. E’ iniziale (marzo ’69) l’elaborazione di un volantone che è una attenta analisi del ruolo dei Comitati di Base, a cui l’Unione dà un immediato appoggio:
“…Formiamo comitati di base. Organizziamoci in comitati, facciamo assemblee di reparto, di fabbrica, di quartiere…l’autogestione della lotta è il primo passo verso l’autogestione della vita.”.
Sul nuovo contratto dei metalmeccanici l’U.S.I. Milanese diffonde nelle fabbriche la piattaforma dei 5 punti elaborata nazionalmente dalle assemblee dei lavoratori U.S.I. del settore (militanti e simpatizzanti): parità normativa tra operai e impiegati, riduzione dell’orario di lavoro a sei ore, abolizione del lavoro straordinario e del cottimo, semplificazione della retribuzione, blocco dei licenziamenti e denuncia dell’accordo interconfederale.
Con puntuale efficacia vengono elaborati dall’U.S.I. Milanese altri importanti volantini-documenti. Uno sulla truffa delle pensioni e un altro su “la nuova truffa: lo statuto dei lavoratori”.
Interventi diretti sono fatti in varie aziende. Tra questi alcuni incentrati sulla nocività come alla Olmo (sulle gravi condizioni igienico-sanitarie altamente pericolose per i lavoratori) e alla Smeriglio (“di silicosi si muore”).
Senza dubbio l’aspetto più importante della breve ma intensa attività dell’ U.S.I. Milano Bovisa è lo stretto collegamento che si forma tra la nostra sezione e alcuni importanti Comitati di Base (tra i quali quello dell’Azienda Tranviaria Municipale) che inizialmente si riuniscono settimanalmente proprio nella sede dell’U.S.I.
Contatti che precipiteranno coi fatti del dicembre ’69 e con l’assasinio di Pinelli favorendo così negli anni successivi la progressiva penetrazione in questi organismi di base di formazioni verticistiche dell’estrema sinistra leninista che opereranno per svuotare i CUB delle originali caratteristiche assembleari servendosene strumentalmente per obiettivi e intrallazzi di partito.
Se la situazione dell’U.S.I. a Milano è ben vivace e promettente sono da segnalare, prima e durante l’autunno caldo, iniziative di lotta anche in altre parti d’Italia. A Genova, dove si interviene nella vertenza contrattuale dell’Ansaldo, si costituisce un sindacato USI degli edili e (maggio ’69) una sezione aziendale di lavoratori del reparto tubisti all’Italcantieri. Questa sezione (settore USI Italcantiere Sestri) si rende protagonista di un’importante iniziativa di solidarietà col Cantiere San Marco di Trieste (occupato dai lavatori in lotta per “raggiungere condizioni umane e sicurezza occupazionale”) dando vita, nel giugno ’69, a una libera sottoscrizione tra i lavoratori genovesi in favore di quelli triestini.
A Carrara i lavoratori del marmo dell’U.S.I. elaborano un importante documento con la loro piattaforma rivendicativa (in cui uno dei punti più qualificanti è “5 ore al giorno per il 50% degli infortuni in meno). Il documento viene stampato in forma di opuscolo nel 1970 e diffuso massicciamente tra i lavoratori delle cave e delle ditte collegate. A Forlì l’USI apre i locali di una nuova sezione mentre collegamenti vengono presi con un gruppo di lavoratori metalmeccanici del modenese.
Nel maggio del 1969 esce il primo numero del nuovo periodico dell’U.S.I. “Lotta di Classe” (un secondo numero esce in agosto). E’ un’ottimo giornale che putroppo deve fare i conti con i problemi organizzativi e finanziari a cui segue l’incriminazione del primo numero, da parte della magistratura, per un articolo (“Dopo Avola”) che brevemente commentava uno degli eccidi di lavoratori commessi dalla polizia nel periodo dell’autunno caldo.
LA STRAGE E L’ASSASINIO DI PINELLI
Stato e padroni hanno un unico obiettivo: fermare le lotte. Se non basta il consueto controllo dell’apparato sindacal-riformista sui lavoratori, si passa al terrore a cui segue la repressione del dissenso e dell’opposizione di classe.
La prova generale della nuova strategia statal-padronale viene compiuta a Milano il 25 aprile del 1969 con due attentati alla stazione centrale e alla fiera. Mentre appare chiara l’estraneità alle bombe di chiunque operi nel sociale (con forti sospetti invece sulla manovalanza neofascista o su corpi speciali della polizia) sono subito indagati gli anarchici e alcuni sono arrestati iniziando la campagna di criminalizzazione e di caccia alle streghe contro il movimento. Un secondo assaggio è fatto ad agosto con alcuni attentati ai treni e con la solita pista libertaria da piazzare su stampa e televisioni.
Il movimento anarchico deve subito occuparsi della controinformazione e della difesa degli arrestati. A Milano nei primi mesi del ’69 sorge la “Croce Nera Anarchica” . Pinelli è tra i promotori dell’iniziativa impegnandosi a raccogliere cibo, vestiario e libri da inviare ai compagni in carcere. Del bollettino della “Croce Nera Anarchica” escono 9 numeri dal giugno 1969 all’aprile 1971. Già dal primo numero si denuncia la tecnica usata per la provocazione e col secondo (agosto) si mettono in guardia tutti i compagni per una terribile svolta repressiva in arrivo di cui si capisce la gravità anche se non sono definiti tutti i contorni dell’operazione. Appello che ricompare sul n.4 (pochi giorni prima del 12 dicembre) quando si invita tutta l’opposizione a svegliarsi e a capire che: “…l’arresto degli anarchici era solo una delle prime mosse di una più vasta manovra repressiva”.
E’ significativo un volantino diffuso dall’U.S.I. di Milano un mese prima di piazza fontana (9-11-’69) dal titolo “rispondere colpo su colpo alla repressione, estendere gli obbiettivi delle lotte in corso” dopo le cariche a freddo compiute dalla polizia contro un corteo di lavoratori. Per l’U.S.I. è intensificando la lotta sociale e sindacale (“aumentare la resistenza dei lavoratori in lotta in questo momento”) che si può vincere.
Nel pomeriggio del 12 dicembre una bomba esplode nella sede della banca nazionale dell’agricoltura di Milano. A terra rimangono i corpi straziati di 16 morti e 90 feriti. E’ l’inizio di una lunga serie di “stragi di stato” che per lungo tempo colpiranno i lavoratori e le loro lotte (Piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, stazione di Bologna ed altre).
Mentre comincia un’ondata di fermi e di interrogatori nell’area libertaria (circa un centinaio, alcuni dei quali divengono arresti, con l’accusa al gruppo 22 marzo, in cui milita Pietro Valpreda, di essere il responsabile dell’attentato) gli anarchici di Milano si riuniscono in assemblea straordinaria il 14 dicembre al circolo Ponte della Ghisolfa stilando un comunicato stampa che ribadisce l’estraneità del movimento anarchico (“e del movimento operaio di cui esso è parte”) e la natura fascista del crimine compiuto.
Pinelli, a seguito della strage, è “invitato” a seguire i poliziotti in questura dove si reca. Non ne uscirà più vivo e sarà scaraventato giù dalla finestra, nel corso di un interrogatorio, di una delle stanze dell’ufficio politico. La polizia, che subito sostiene la tesi del “suicidio” fornirà una serie di versioni contrastanti ed infamanti. La prima è che Pinelli era coinvolto negli attentati e, crollato il suo alibi,si era ucciso gridando “è la fine dell’anarchia”. La seconda versione è posteriore ai fatti. Visto che l’alibi era valido, si sostiene un gesto suicida incomprensibile da parte di Pinelli.
Sulla morte di Pino (come sulla strage di piazza fontana) lo stato non darà mai la verità cercando invece di deformare e falsificare la realtà. Questo perché uno stato assassino non può far luce su i suoi delitti senza mettere in gioco la sua stessa esistenza.
Significativo il commento di Licia, la vedova di Pinelli, raccolto recentemente da “Il riformista” che sintetizza con poche frasi quello che successe quella notte nella questura di Milano:
“l’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei cinque agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi”
Una grande folla, silenziosa ma piena di rabbia, accompagna il funerale di Giuseppe Pinelli. La televisione parla di tremila persone ma in realtà sono molte di più. Una selva di bandiere nere due delle quali (molto grandi) aprono il corteo, anche la bara è avvolta in un drappo nero.
I primi anni settanta vedono il movimento anarchico e quello della sinistra extraparlamentare (in particolare Lotta Continua) impegnati in una campagna di controinformazione e di denuncia che coinvolge tutta la società italiana dagli strati proletari fino agli ambienti più intellettuali della cultura italiana. Si chiede la liberazione di Valpreda e degli altri arrestati ma anche la verità su Pinelli. Particolare valore assumono le contestazioni dei fatti da parte di Camilla Cederna, la prima accorsa sul luogo in cui si sfracellò Pinelli, e che in libri e inchieste giornalistiche smontò le tesi della polizia facendo emergere le responsabilità di chi uccise Pino. Anche Pasquale Valitutti (che si trovava come fermato in una stanza attigua a quella dove era interrogato Pinelli) fornì una decisiva testimonianza (a cui i magistrati preferirono quelle, ovvie, dei poliziotti coinvolti) sulla volontà di incastare Pinelli, dei rumori (percosse) sentiti, della presenza (sempre negata) di Calabresi nella stanza, delle infamie dette dagli sbirri (“Pinelli era un delinquente e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile”) fino al volo dal quarto piano della questura.
Nel 1971 la vedova Pinelli denuncia Calabresi e gli altri poliziotti presenti all’interrogatorio. Il processo (con il magistrato cosiddetto “di sinistra” Gerardo D’Ambrosio) finisce con il proscioglimento degli imputati e con una delle sentenza più assurde emessa da un tribunale italiano, inverosimile per la scienza medica, sorda ai gravi elementi forniti da sanitari e dai testimoni non in divisa. Una sentenza “politica” per chiudere un caso che dava fastidio sia alla destra che a una sinistra che aspirava a una stagione di compromessi per arrivare al governo insieme alla DC.
Pinelli, per i giudici, non si suicida ma, circondato dagli sbirri, riesce a cadere dalla finestra per un “malore attivo”. Il vero e unico malore attivo è quello della mente contorta e irresponsabile dei giudici e dei loro manovratori politici.
Le conseguenze dei fatti del dicembre ’69 ricadono fortemente sulle vicende del movimento anarchico ed anarcosindacalista italiano, nel bene e nel male. Certo il movimento, pur colpito, non molla, reagisce bene all’attacco e anzi, nei primi anni settanta, cresce nel paese anche grazie alla grande campagna Valpreda-Pinelli. Certamente si arrocca molto sulla questione (necessaria) della controinformazione anche se non mancano gli interventi sulle tematiche sociali ed operaie.
Sicuramente una ripercussione negativa si ha nell’U.S.I. che aveva riposto grande speranza nello sviluppo della sua realtà milanese tanto da programmare uno spostamento della sua Segreteria Nazionale da Genova (dove i compagni anziani, dopo vent’anni di sacrifici, non erano più in grado di continuare il massiccio lavoro necessario) proprio a Milano..
Le difficoltà della situazione sono evidenti tant’è che in una circolare del giugno 1970, Libero Dall’Olio (segretario dell’U.S.I.) lamenta la difficoltà di mantenere i contatti tra iscritti, sezioni e la struttura nazionale. Sulla situazione milanese Dall’Olio precisa che “da Milano si riesce avere indirettamente ogni tanto qualche manifesto come U.S.I. milanese”. Vale a dire, sono rimasti dei compagni che ancora intervengono ma mancano quegli stabili collegamenti esistenti prima della morte di Pinelli.
Vengono fatti alcuni tentativi riorganizzativi che dimostrano la predisposizione verso l’U.S.I. di vari gruppi libertari e di nuovi giovani lavoratori. Il più significativo è il convegno dell’Unione che si svolge a Carrara a fine luglio del 1970 con la partecipazione, oltre che dei compagni di Genova e di Carrara, di nuove realtà interessate (Bologna, Firenze, Livorno) oltre che di un buon numero di giovani per conto dell’U.S.I. di Milano.
Purtroppo nel maggio del 1971, le dimissioni dei componenti genovesi della segreteria nazionale causano, non essendoci la possibilità di un gruppo che possa sostituirli nel lavoro, la fine della prima riattivazione dell’U.S.I. del dopoguerra (1950-1971). Si dovrà aspettare la fine degli anni settanta, è un nuovo importante ciclo di lotte, per ridar vita, a partire dal 1978, a una (l’attuale) più stabile riattivazione e a una maggiore estensione territoriale del sindacato.
La conflittualità sociale ed operaia si mantiene alta per tutti gli anni settanta trovando un suo nuovo culmine nel 1977 quando un imponente movimento, oltre a scontrarsi col potere e con il governo, fa tremare anche il PCI e la CGIL che vengono contestati e isolati da una nuova generazione di giovani in lotta (molti dei quali precari). L’assalto alla CGIL e la fuga di Lama dall’università di Roma sono l’emblema di quel periodo e tanto ricordano i fatti dell’assedio alla UIL a Piazza Statuto. La stagione del terrorismo (primo tra tutti quello statale, poi quello leninista e quello fascista) e le sconfitte operaie dei primi anni ottanta (a cominciare dalla FIAT) faranno iniziare una grave fase di riflusso e di emarginazione del movimento di lotta.
Carxismo, loggie segrete, nuove stragi, la sinistra guerrafondaia al potere ed il berlusconismo fanno parte di questi ultimi vent’anni. Di fatto quel dicembre del 1969 condiziona tutti gli anni successivi fino ad oggi. Una finestra mai chiusa quella da cui gettarono Pinelli nel vuoto, restata volutamente aperta per favorire la strategia dei padroni. Sempre e solo per colpire le classi subalterne e le lotte sociali, ieri con Piazza Fontana, l’altro ieri con la mattanza di Genova e di Bolzaneto, oggi con la repressione, la cancellazione dei diritti sociali e sindacali e il razzismo divenute leggi di stato e asse portante del sistema dello sfruttamento e dell’oppressione sociale.
Pur se modificate le fasi sociali sempre identica è la lotta da condurre. L’U.S.I. è ancora al suo posto. Nulla sarà dimenticato, la finestra và richiusa e il tavolo dei potenti và rovesciato.
Gianfranco Careri
(Archivio nazionale USI-AIT)