I LADRI DI MORTI Per riabilitare i fascisti si appropriano dei morti partigiani!

Che il 10 febbraio, il c.d. Giorno del Ricordo, fosse il giorno della riabilitazione ufficiale dei fascisti e del fascismo è ormai una cosa assodata. E’ il giorno dell’orgoglio fascista, in cui fascisti vecchi e nuovi, dichiarati e coperti celebrano i loro morti e se stessi, con le massime cariche dello stato che distribuiscono riconoscimenti ufficiali alla memoria di squadristi, militi fascisti delle formazioni collaborazioniste, criminali di guerra (chi siano coloro a cui vengono attribuiti i riconoscimenti è ben documentato nel volume “Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica”).

Tuttavia la reazione sempre più organizzata e diffusa alle menzogne propalate in tale occasione ha messo in difficoltà i gestori di questa operazione di stravolgimento della storia, di criminalizzazione dell’antifascismo e creazione di un senso comune reazionario. Le reazioni sempre più scomposte a qualsiasi contestazione della presunta “verità di stato”  ne sono la testimonianza più chiara. Alcuni problemi – e anche grossi – se li sono però creati da soli. Il numero dei riconoscimenti concessi (al massimo alcune centinaia) alla memoria dei c.d. “infoibati” non corrispondono infatti nemmeno lontanamente alle decine o addirittura centinaia di migliaia di “vittime innocenti della barbarie slavo-comunista” di cui i propagandisti della “memoria condivisa” continuano a blaterare. A ciò va aggiunto che il numero di domande presentate diminuisce di anno in anno. Allora hanno pensato che forse potevano farlo crescere con l’aiuto degli italiani emigrati all’estero e quest’anno tutte le rappresentanze diplomatiche italiane nei mesi precedenti il 10 febbraio hanno diffuso un appello alla presentazione delle richieste del riconoscimento, in cui si spiegava che il numero delle domande pervenute era “molto al di sotto delle potenzialità”!



In questa ricerca spasmodica di “vittime innocenti” da utilizzare nella loro campagna sono andati oltre ogni limite. I responsabili di ciò non sono quattro vecchi nostalgici, esponenti di organizzazioni private: chi attribuisce i riconoscimenti è una apposita commissione, presieduta da un delegato del Presidente del Consiglio dei Ministri e composta, oltre che da 4 rappresentanti di una serie di organismi privati delle associazioni degli esuli (gli “esuli di professione”), da un funzionario del Ministero dell’Interno e dai capi degli Uffici storici presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, lo Stato maggiore della Marina, lo Stato maggiore dell’Aeronautica e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri. Quindi i rappresentanti delle massima autorità di governo e di tutte le forze armate!

Il 10 febbraio del 2009 questi signori hanno attribuito il riconoscimento come “infoibato” anche alla memoria di un certo Antonio Ruffini, di Termoli (Molise). Lo hanno fatto basandosi su una sola ed unica pezza d’appoggio: quanto scritto nel volume “L’Albo d’Oro – La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale” da Luigi Papo, l’ex comandante dell’unità della Milizia Difesa Territoriale (la formazione fascista, equiparabile alla Guardia Nazionale Repubblicana della RSI, operante nel territorio che dopo il settembre ’43 i nazisti denominarono Zona d’operazioni Litorale Adriatico – comprendente l’intero Friuli, Trieste, Gorizia, l’Istria, Fiume e il territorio della Slovenia annesso all’Italia dopo l’occupazione della Jugoslavia nel 1941) di stanza a Montona (Motovun) in Istria.

Antonio Ruffini però non solo non è stato “infoibato” né ucciso in altro modo dagli slavi e/o dai comunisti, ma è stato invece assassinato come partigiano proprio dai camerati italiani, tedeschi e sloveni di Luigi Papo!

Da alcune lettere in possesso della sorella del Ruffini (Maria)[1] sappiamo che lo stesso, ufficiale dell’esercito italiano di stanza nella zona di Trieste, dopo l’8 settembre venne tenuto nascosto assieme a due commilitoni, Renato Castiglioni di Napoli e Arturo Russo  di Taranto, in casa di un certo dottor Nobile a Capodistria. Dalla stessa fonte sappiamo che il 23 marzo ’44 i tre vennero prelevati da una pattuglia partigiana per essere accompagnati dai partigiani garibaldini in Friuli. A lungo questo è stato tutto quello che si sapeva del destino di Ruffini e dei suoi due compagni, di cui da quel momento si sono perse le tracce. Il Papo ne conclude che sono “scomparsi dopo essere stati prelevati dagli slavi”, lasciando intendere che la scomparsa sia da addebitare proprio agli “slavi”.

Nel 1982 uno storico friulano, Luigi Raimondi, ha però pubblicato un saggio (“L’eccidio di Rauna di Gargaro”, Storia contemporanea in Friuli, n° 13, a. XII, 1982, pp. 85-95) su un massacro commesso da una formazione nazista composta di tedeschi, italiani e sloveni a Raune di Gargaro, un paesino nelle montagne a nord di Gorizia, ai danni di un gruppo (il loro numero non è certo e varia dai 18 ai 23) di ex militari italiani disarmati in procinto di aggregarsi ai garibaldini che ci racconta un’altra storia. Il Raimondi ha accertato che il gruppo era partito da Capodistria e dopo numerose tappe era arrivato nel paesino il 30 o 31 marzo di primissimo mattino accompagnato da guide slovene del posto. Mentre il gruppo di italiani era in attesa della colazione arrivò però improvvisamente in paese (grazie alla nebbia) una formazione nazifascista. Nello scompiglio pochissimi degli italiani ebbero la freddezza e l’accortezza di seguire le indicazioni delle loro guide e gran parte di loro (10 su 18 secondo i documenti dell’Archivio della Repubblica di Slovenia, 20 su 23 secondo il Raimondi) vennero catturati dai nazisti. Uno solo, un ufficiale dai capelli scuri, alto circa 1, 75 m con ancora visibili i segni dei gradi sulla giacca della divisa, si ribellò, seppure inerme, e per questo i nazisti lo impiccarono immediatamente. Gli altri italiani vennero portati via dai nazisti che li uccisero sulla strada del ritorno verso la loro base nei pressi di Gorizia dopo averli seviziati in maniera tale da renderli irriconoscibili. Per ulteriore spregio i loro corpi martoriati vennero disposti dai nazifascisti a formare una stella. Nel dopoguerra sul luogo dell’impiccagione dell’ufficiale italiano gli abitanti del paese di Raune hanno posto una lapide a ricordo del sacrificio dei 20 italiani. Comprensibilmente, visto che la gente del posto non aveva avuto il tempo di conoscerli, la lapide non riporta il nome di nessuno degli uccisi.

Nella sua ricerca Raimondi ha accertato una serie di fatti che consentono di dire che l’ufficiale barbaramente impiccato dai nazisti e dai loro camerati italiani e sloveni era proprio Antonio Ruffini. Innanzitutto Raimondi ha accertato nome e cognome di uno degli uccisi: Renato Castiglione Morelli. Proprio uno dei due commilitoni con cui Ruffini si era nascosto a Capodistria e assieme ai quali si era avviato verso le formazioni garibaldine il 23 marzo ’44. In secondo luogo Raimondi ha accertato che nel gruppo c’erano due ufficiali. Uno di essi era proprio il Castiglione, mentre l’altro era un certo “Ruffini o Ruffino”. E visto che l’ufficiale che si ribellò ai nazisti non corrisponde alla descrizione del Castiglione (che era più basso è portava gli occhiali, che i testimoni escludono fossero portati dall’assassinato), l’altro non può che essere Antonio Ruffini.

La sorella e chi lo ha conosciuto descrivono Antonio come un giovane (era nato il 16 aprile del 1921 in una famiglia di ferrovieri) intelligente, impulsivo e coraggioso, che non aveva potuto sottrarsi al richiamo alle armi pur essendo contrario alla guerra fascista. In effetti Antonio è morto da coraggioso, opponendosi a mani nude ai nazifascisti. E’ morto da partigiano, da Garibaldino. Oggi invece lo stato vuole presentarcelo come una vittima dei partigiani al fine di riabilitare proprio i suoi veri assassini (pure Renato Castiglione lo trovate in quasi tutti gli elenchi di c.d. “infoibati”, ma per ora non si sono azzardati ad affibbiargli tale qualifica anche ufficialmente).

Ormai nella operazione di riscrittura della storia e di riabilitazione dei fascisti lo Stato non conosce più vergogna ne limiti. Antonio Ruffini era però un ribelle, un partigiano, uno dei nostri. Il cui corpo non sta in una foiba, ma in un cimitero in Slovenia, sepolto con il rispetto e l’amore dovuto a chi combatteva dalla loro stessa parte da quegli slavo-comunisti che vorrebbero farci credere siano stati i suoi assassini.



[1] Si tratta delle lettere sulla sorte di suo fratello Antonio inviate alla signora Maria nel dopoguerra dal dott. Nobile di Capodistria. Il loro contenuto è riassunto e citato in  Giovanni De Fanis, “Il tenente termolese scomparso in Istria ai tempi delle foibe”, http://www.primonumero.it/attualita/primopiano/articolo.php?id=3871, 9 febbraio 2008 e in Vedi  Giovanni De Fanis, “65 anni dopo: si cerca la verità sull’eroe senza medaglia”, http://www.primonumero.it/attualita/primopiano/articolo.php?id=4883, 10 febbraio 2009. .

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