Giuseppe Pinelli

Giuseppe Pinelli nasce a Milano, nel popolare quartiere di Porta Ticinese, nel 1928. Finite le elementari è “costretto” ad andare a lavorare prima come garzone, poi come magazziniere. La sua innata sete di conoscenza lo porta a colmare le sue lacune da autodidatta, attraverso la lettura di centinaia e centinaia di libri.
Nel ’44/’45 partecipa alla Resistenza antifascista come staffetta delle Brigate Bruzzi e Malatesta. Dopo la fine della guerra “Pino” continua a rimanere convinto ed attivo, partecipando con entusiasmo alla crescita del movimento anarchico a Milano.
Nel 1954 vince un concorso ed entra nelle ferrovie come manovratore. L’anno successivo si sposa con Licia Rognini, incontrata ad un corso di esperanto.

Nel ’63 si unisce ai giovani anarchici della gioventù Libertaria, due anni dopo è tra i fondatori del circolo “Sacco e Vanzetti”. Nel 1968 uno sfratto costringe i militanti alla chiusura del circolo ma, il 1° maggio Pinelli è tra gli inauguratori di un nuovo circolo, in piazzale Lugano 31, a pochi metri dal Ponte della Ghisolfa.
Al nuovo Circolo si succedono cicli di conferenze e assemblee dei dei primi comitati di base unitari, i mitici CUB, che segnano la prima ondata di sindacalismo di azione diretta, al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali. Pino è tra i promotori della (ri)costruzione della sezione dell’Unione Sindacale Italiana (USI), l’organizzazione di ispirazione sindacalista-rivoluzionaria e libertaria.

Dopo gli assurdi arresti degli anarchici per le bombe esplose il 25 aprile ’69 a Milano, alla stazione centrale e alla fiera campionaria (saranno assolti nel giugno ’71), Pinelli si impegna alacramente per raccogliere pacchi di cibo, vestiario e libri da inviare ai compagni in carcere. Nell’ambito della appena costituita Croce Nera Anarchica, si impegna nella costruzione di una rete di solidarietà e di controinformazione, che possa servire anche in altri casi simili.

Il 12 dicembre 1969, dopo la strage di Piazza Fontana, Pinelli viene invitato a seguire i poliziotti in questura, anzi a precederli col motorino. Tre giorni dopo, il corpo di Pino veniva scaraventato giù dalla finestra di una stanza dell’ufficio politico, al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l’inizio di una tragica farsa, tuttora in corso.

Un omicidio di Stato

Pinelli viene fermato poche ore dopo la strage del 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana. Viene interrogato per tre giorni e alla sera del terzo giorno viene trovato morto nel cortile della questura, dopo essere precipitato dalla finestra della stanza dell’interrogatorio che si trovava al quarto piano. La versione ufficiale parla di suicidio: gli inquirenti cercarono di far credere che Pinelli si fosse tolto la vita perché coinvolto nell’attentato. Non era vero. Come pure la ricostruzione delle ultime ore di interrogatorio.

Il 1968 e il 1969 sono anni dove la contestazione operaia e studentesca sembra portare a grandi cambiamenti. Tra il gennaio e il dicembre 1969 vengono compiuti 145 attentati quasi tutti di matrice fascista.

Il 25 aprile 1969 gli anarchici sono accusati e poi assolti di vari attentati alla fiera di Milano. Un anarchico di nome Braschi viene invitato durante un interrogatorio dal commissario Calabresi a buttarsi dalla finestra.

Il 12 dicembre 1969 a Milano nella sede della banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana alle 16,37 scoppia una bomba che causa la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Nella stessa ora a Roma scoppiano altre bombe. Infine, nella banca Commerciale di Milano viene trovata una borsa contenente una bomba che in tutta fretta, viene fatta esplodere eliminando una prova preziosa per le indagini. Immediatamente, a dimostrazione di un disegno già preordinato, le indagini senza alcun indizio seguono la pista anarchica. Il commissario Luigi Calabresi già alle 19,30 (3 ore dopo la strage) ferma alcuni anarchici davanti al circolo di via Scaldasole.

Nella notte del 12/12/1969 sono illegalmente fermate circa 84 persone quasi tutte anarchiche, tra cui Giuseppe Pinelli. Il lunedi 15/12 viene arrestato con l’accusa di starge Pietro Valpreda, anarchico. Dopo più di tre anni di galera, innocente, sarà completamente assolto. I giornali partono con una campagna stampa di calunnia e denigrazioni sposando le tesi della questura.

La sera del 15 dopo 3 giorni di continui interrogatori muore, volando dal 4° piano della questura, Giuseppe Pinelli. Aldo Palumbo, cronista dell’Unità, mentre cammina sul piazzale della questura sente un tonfo poi altri 2 ed è un corpo che cade dall’alto, che batte sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante e infine si schianta al suolo per metà sul selciato del cortile per metà sulla terra soffice dell’aiuola.

Nella stanza dell’interrogatorio sono presenti il commissario Luigi Calabresi, i brigadieri Panessa, Mucilli, Mainardi, Caracutta e il tenente dei carabinieri Lograno che saranno tutti per “meriti” elevati di grado. Il questore Marcello Guida, nel 1942 uomo di fiducia di Mussolini e direttore del confino politico di Ventotene, già 20 minuti dopo, dichiara che il Pinelli si è suicidato e che il suicidio è una ammisione di colpevolezza perché “l’alibi era crollato”.

Nel primo mese vengono fornite 3 versioni contrastanti di come sarebbe venuto il suicidio. Gli anarchici accusano subito la polizia di assassinio e i fascisti e lo stato di essere gli autori delle stargi. Parte una campagna di controinformazione con assemblee, cortei, libri, fino ad arrivare ad un processo allo Stato.

Si scopre che a mezzanotte meno due secondi (2 minuti e 2 secondi prima della caduta di Pinelli) venne chiamata l’autoambulanza. La stanza dell’interrogatorio larga m.3,56×4,40 e contenente vari armadi e scrivania e la presenza di 6 persone rende impossibile uno scatto di Pinelli verso la finestra. La stranezza è che la finestra fosse aperta, trattandosi di dicembre e di notte. Pinelli cade scivolando lungo i cornicioni. Non si è dato quindi nessuno slancio. Egli cade senza un grido e senza portare le mani a protezione della testa, come se fosse già inanimato.

Noi accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice fascista. Accusiamo il questore e i dirigenti della polizia di Milano di aver dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che “era caduto”. Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver redatto alcun verbale edi interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale verbale che venisse in seguito tirato fuori è da considerarsi falso. Accusiamo la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l’inchiesta si svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli avvocati della difesa. Accusiamo i magistrati e la polizia di aver ripetutamente violato il segreto istruttorio diffondendo voci e accuse tendenti a diffamare di fronte all’opinione pubblica un uomo assolutamente innocente, ma per loro colpevole di essere anarchico. Noi accusiamo lo Stato Italiano di cospirazione criminale nei confronti dell’anarchico Pietro Valpreda, da mesi sottoposto ad un feroce linciaggio morale e fisico, mentre le prove che gli inquirenti credono di avere contro di lui, si smantellano da sole una per una.

Con queste parole gli anarchici sintetizzavano la loro accusa nei confronti dello stato e dei suoi apparati, la cui natura intrinsecamente criminale e violenta appariva evidente.

Il ricordo di Pinelli

La figura di Pinelli è stata presa a simbolo dell’opposizione al potere costituito in genere ed in particolare al potere poliziesco.

Negli anni sono infatti state composte diverse canzoni su Pinelli, come La ballata del Pinelli, scritta da G. Barozzi, F. Lazzarini, U. Zavanella (giovani anarchici mantovani) la sera stessa dei funerali e successivamente rielaborata, ampliata e musicata da Joe Fallisi nel 1969. Ogni anno, a Milano si organizzano diverse manifestazioni per non dimenticare Pinelli e la strage di piazza Fontana dove è stata apposta una lapide che recita: A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della questura di Milano; 16/12/1969.

Alla vicenda di Pinelli si ispirò anche un’opera teatrale di Dario Fo: Morte accidentale di un anarchico (ma in realtà il riferimento quasi esplicito che viene fatto è per Andrea Salsedo). L’opera pittorica di Enrico Baj, che doveva essere esposta a Milano lo stesso giorno dell’omicidio Calabresi, intitolata I Funerali di Pinelli, si ispira anch’essa a questi eventi.

Della vicenda Pinelli si occupò lungamente Camilla Cederna, giornalista di fama, che pubblicò la sua testimonianza in un libro intitolato Pinelli. La finestra sulla strage, edito nel 1971 e ripubblicato nel 2004. Eccone un estratto (lettera di Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico, amico del Pinelli):

“Aveva seguito gli sviluppi del mio processo negli ambienti cattolici (soprattutto fiorentini) ed era come affascinato dal tipo di testimonianza. Conosceva, e non per sentito dire, movimenti e gruppi che si ispiravano alla non-violenza e voleva discutere con me sulle possibilità che la non-violenza diventasse strumento d’azione politica e l’obiezione di coscienza stile di vita, impegno sociale permanente. Io gli parlavo di società basata sull’egoismo istituzionalizzato, di disordine costituito, di lotta di classe e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell’uomo e nella necessità di edificare l’uomo nuovo, lavorando dal basso. Poi ci vedemmo in molte altre occasioni e i punti fermi della nostra amicizia divennero don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, due preti scomodi, che hanno lasciato il segno e non solo nella chiesa.” “Viveva del suo lavoro, povero come gli uccelli dell’aria, solido negli affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli: anarchico individualista, è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l’individualismo delle coscienze addomesticate: lui, ateo, aiutava i cristiani a credere (e lo possono testimoniare tanti miei amici cattolici); lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici. Non ignorava le radici sociali dell’ingiustizia, ma non aveva fiducia nei mutamenti radicali, nelle `rivoluzioni’ che lasciano gli uomini come prima. Paziente, candido, scoperto nel suo quotidiano impegno, era lontano dagli estremismi alla moda, dalle ideologie che riempiono la testa ma lasciano vuoto il cuore. Stavo bene con lui, anche per questo.”

Il poeta anarchico genovese Riccardo Mannerini scrive “Il Ferroviere”.

Ha suscitato polemiche la decisione del Comune di Milano di sostituire la targa dedicata a Giuseppe Pinelli, posta in Piazza Fontana. La precedente, apposta dal circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, si riferiva a Pinelli come “ucciso innocente”. Quella apposta dal comune recita invece “innocente morto tragicamente”. La targa era stata già sostituita nel 2004 dagli anarchici milanesi a causa dello stato di disfacimento dell’originale esposto per oltre trent’anni al clima meneghino.

La sostituzione della targa, avvenuta improvvisamente e di notte (ufficialmente per evitare possibili incidenti che una sostituzione annunciata avrebbe potuto procurare) è stata considerata da alcuni esponenti del mondo anarchico e della sinistra come un’operazione elettorale dovuta alle imminenti elezioni politiche ed elezioni amministrative per il sindaco, il quale aveva tuttavia promesso alla vedova Calabresi di sostituire la targa prima della fine del suo mandato.

Il 23 Marzo 2006, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa hanno ricollocato in piazza Fontana la loro targa, completa della dicitura originale. Per tanto, ora in quel luogo vi sono due targhe che commemorano Giuseppe Pinelli.

Il sindaco Albertini, dopo questa ricollocazione, ha chiesto alla giustizia civile di far rimuovere nuovamente la targa degli anarchici, sostenendo che, per decenni è stata tollerata una targa che occupava abusivamente il suolo pubblico, negando la possibilità di mediazione sul testo presente sulla lapide del comune.

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