Dalla legge Biagi agli anni della crisi

2003: entra in vigore la legge Biagi, un corpo normativo di 86 articoli, dichiaratamente inteso ad  adeguare la disciplina del lavoro in Italia alle nuove esigenze del mercato e della produzione capitalistica: flessibilità del lavoro era la parola che riempiva la bocca di governo e Confindustria, precarietà il tratto comune che avrebbe contraddistinto la biografia lavorativa e non solo di chi si apprestava a entrare per la prima volta nel mercato nel del lavoro e di chi era alla ricerca di una nuova occupazione.
Se fino a quel momento il lavoro atipico esisteva ma occorreva dirlo a bassa voce, con  la legge Biagi il suo sdoganamento non ha più remore: il precariato esiste eccome, va anzi sostenuto ed incentivato perchè così l’impresa italiana può essere competitiva col resto del mondo.

Le “novità” della legge Biagi
Ecco dunque che le principali modifiche sono in realtà più apparenti che effettive perché confermano modelli preesistenti; è certo comunque che quando la legge Biagi entra nel merito lo fa solo in termini peggiorativi: i contratti a progetto sostituiscono i vecchi co.co.co.; il lavoro interinale (introdotto con la legge Treu del 1997) diventa lavoro somministrato e contemporaneamente viene abolita la legge n. 1369/60; viene rivista la disciplina del contratto di formazione e lavoro, che diventa contratto di inserimento, e dell’apprendistato, che si triplica per adattarsi a diverse tipologie di sfruttamento, dalla manodopera più qualificata a quella destinata a lavori di basso profilo professionale (e davvero sfrontato è qualificarlo come professionalizzante); nascono nuove figure (lavoro accessorio, a chiamata, staff leasing) per dare agio alle imprese di scegliere la forma di sfruttamento della manodopera più consona alle proprie esclusive esigenze.
Anche il part time, intuitivamente finalizzato a consentire al lavoratore una maggiore conciliazione tra tempo libero e tempo lavoro, diventa strumento di mera dilatazione del tempo lavoro,  attraverso la previsione di clausole flessibili – che comportano cambi della collocazione oraria del part time –  e di clausole elastiche – che consentono una modifica, in aumento o in difetto, dell’originaria durata del part time.
La dilatazione dei tempi di lavoro è per vero caratteristica immanente l’attuale mondo del lavoro: le modifiche introdotte nel 2003 (d.lgs. n. 66/2003)  – in questo caso in linea con le direttive comunitarie che le hanno ispirate – vanno esattamente in questo senso, estendendo notevolmente la durata massima della giornata di lavoro (dalle 10 di prima alle 13 di adesso), prevedendo orari ancora più ampi per determinate professioni (lavori di custodia o di attesa), introducendo periodi plurimensili per la fissazione del tetto di lavoro straordinario consentito, ecc.
In senso peggiorativo vanno anche le modifiche apportate alla disciplina del lavoro nelle cooperative: la duplicità del rapporto – associativo e di lavoro – del socio-lavoratore avvenuto due anni prima con la legge n. 142/2001, che almeno disconosceva ufficialmente il carattere mutualistico della cooperativa, ormai perfettamente allineata all’impresa capitalistica  e ai fini di profitto – sfuma con la legge Biagi, con conseguenze disastrose anche sul piano della tutela nelle aule giudiziarie, dove ancora non si è esaurito il dibattito su quale giudice (civile o del lavoro o, persino, arbitri privati) debba pronunciarsi sull’illegittimità del licenziamento del socio-lavoratore e su che tipo di tutela gli spetti (diritto al posto di lavoro o risarcimento solo economico). Secondo quanto ipocritamente si afferma con la legge Biagi, il socio-lavoratore torna ad essere colui che insieme a tutti gli altri decide le sorti della cooperativa e ne partecipa alla gestione, ed in ragione di ciò si giustifica la disciplina differenziata del lavoro in cooperativa (inapplicabilità dell’art. 18 SL quando insieme al licenziamento interviene anche il provvedimento di esclusione dalla cooperativa; disciplina collettiva demandata alla sola cooperativa, dunque senza alcuna controparte per i lavoratori, il cui regolamento può derogare anche in senso peggiorativo la contrattazione collettiva di settore, retribuzioni solo formalmente allineate a quelle del lavoro dipendente di settore, pause di lavoro- sospensioni del rapporto di lavoro consentite in bianco; ecc.): in una parola si è trattato più di un ritorno al passato che di una novità.
Per quanto di forte impatto simbolico, è più apparente che effettiva l’abolizione del divieto di interposizione di manodopera (l. n. 136/60), come è stato chiaramente ribadito anche dalla giurisprudenza successiva: sul piano del complessivo corpo di regole del diritto del lavoro la regola generale continua ad essere il lavoro alle dirette dipendenze di chi lo utilizza, la separazione tra formale datore di lavoro ed effettivo utilizzatore del lavoro è ancora oggi consentita solo in casi eccezionali e tassativi (appalto, distacco e somministrazione), fuori dai quali si è dunque in presenza,  a seconda dei casi, di appalto o distacco illecito o di somministrazione irregolare, con  conseguente diritto alla costituzione e prosecuzione del rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dell’impresa utilizzatrice.
Discorso a parte va fatto per il contratto a tempo determinato, non toccato dalla Biagi solo perché due anni prima ne era già stata radicalmente modificata la disciplina che, passando dalla previsione di causali tassative alla generale previsione di esigenze tecniche, produttive, organizzative, sostitutive rimesse all’individuazione concreta dell’azienda, ha legittimato un ricorso ancora più fraudolento a questa tipologia, per la gran parti dei casi utilizzata per tenere sotto continua prova la forza lavoro.

Gli aggiustamenti successivi
Insomma le novità della legge biagi non sono affatto nuove quanto piuttosto prosecuzione di linee direttive già intraprese e che negli anni seguenti hanno formato oggetto di ulteriori rimaneggiamenti legislativi e/o governativi, giustificati da  una crisi economica globale che quelle stesse leggi precedenti avrebbero dovuto scongiurare.
Tanto il governo Prodi quanto poi l’ultimo governo Berlusconi hanno messo mano alla disciplina del precariato, ma per quanto differenti siano gli interventi, il disegno complessivo non muta: il precariato riguarda fasce sempre più ampie di lavoratori, i sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale  sono chiamati a ratificarlo e con la crisi occupazionale che avanza ogni remora del passato cade nel dimenticatoio.
Così la legge n. 247/2007, emanata in attuazione del Protocollo sul Welfare, pur riducendo gli spazi datoriali di flessibilità nelle gestione della prestazione lavorativa, di fatto attribuisce un potere di controllo ai soli sindacati confederali, che poi in concreto controllano ben poco e partecipano piuttosto alla gestione concertata delle politiche aziendali.
In questa prospettiva si collocano le previsioni che riguardano la durata massima dei contratti a termine stipulati tra le medesime parti – che oggi arriva a 36 mesi (e in certi casi fino a 44 mesi) – e quelle che subordinano l’apposizione delle clausole elastiche e flessibili all’autorizzazione della contrattazione collettiva, che certo non ne comportano una diminuzione ma solo l’obbligo di previsione nei contratti collettivi.
Cambia il governo e nuove vecchie regole sul precariato si riaffacciano: con la legge n. 133/08 si interviene nuovamente sul tema della flessibilità del lavoro, introducendo rilevanti modifiche al contratto a termine, al contratto di lavoro accessorio e all’apprendistato, nonché ripristinando il contratto di lavoro a chiamata (c.d. intermittente), la cui disciplina era stata abrogata dalla l. n. 247/07. Queste schematicamente le principali novità:
1) contratto a termine: con una disposizione mutuata dalla disciplina delle somministrazioni si stabilisce, in relazione alle causali che le esigenze organizzative/produttive/sostitutive possono essere riferite anche all’ordinaria attività, come a voler dire che il datore di lavoro è libero di scegliere se assumere a tempo indeterminato o a termine; vi è poi stato il tentativo di limitare la sanzione dell’illegittima apposizione del termine ad un mero e contenuto risarcimento economico, ma la previsione è poi stata dichiarata incostituzionale: oggi, dunque, la sanzione resta la conversione del contratto a tempo indeterminato e il risarcimento viene commissurato alle retribuzioni decorse dalla scadenza del termine all’effettivo ripristino del rapporto (non così invece nelle Pubbliche amministrazioni, dove nonostante il contratto a termine sia strautilizzato non è possibile chiedere la conversione); il tetto massimo di 36 mesi appena prima stabilito può essere modificato dalla contrattazione collettiva, così come la durata minima di 6 mesi prevista dalla l. n. 247/07: la contrattazione collettiva può riguardare qualsiasi livello (aziendale, territoriale, nazionale) purché – come sempre – riguardi OOSS maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
2) lavoro accessorio : con questo termine la legge Biagi qualificava il lavoro occasionale, limitato a certe tipologie di lavori e lavoratori; la l. 133/08 lo istituzionalizza, eliminando ogni riferimento al carattere di straordinarietà ed eccezionalità delle attività in relazione alle quali è ammesso e estendendone l’ambito di applicazione a qualsiasi categoria di lavoratori, con facilitazioni maggiori per studenti sotto i 25 anni e pensionati.
3) apprendistato professionalizzante: può essere utilizzato, in tutti i settori di attività, per assumere giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni; viene eliminato il limite minimo di due anni di durata (resta solo la durata massima di 6 anni); la formazione può essere anche esclusivamente aziendale.
4) nuove regole in tema di flessibilità dell’orario di lavoro, già come si è visto ampiamente modificato dal d.lgs. n. 66/03: modifiche peggiorative riguardano il lavoro notturno e discontinuo, il riposo del lavoratore in reperibilità; sempre in tema di riposo, la modifica più rilevante riguarda la generalizzazione della periodicità multiperiodale del riposo settimanale, cosicché il riposo settimanale di 24 ore consecutive per ogni periodo di sette giorni – cumulabile con le 11 ore di riposo giornaliero- può essere goduto anche come media nell’arco di due settimane, per cui astrattamente si potrebbe lavorare senza il riposo di 24 ore per 11 giorni consecutivi e poi riposare per 70 ore (35×2).

Crisi, emergenze e nuovi cicli di lotte
Tutto questo corpo di norme non ha affatto raggiunto gli obiettivi di aumento della competitività e dell’occupazione che si era prefissati.
Prova ne sono gli anni 2008 e 2009, in cui il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli sempre più preoccupanti: a dicembre 2009 il tasso di disoccupazione in Italia é salito all’8,5% dall’8,3% di novembre; i senza lavoro sono 2.138.000, 57mila in più rispetto a novembre e 392mila in più rispetto a dicembre 2008.
Ecco allora interventi straordinari di sostegno al reddito, col decreto “mille proroghe” (d.l. n. 185/08 conv. in l. n. 2/2009) che introduce alcuni nuovi istituti che derogano o modificano taluni aspetti della Cassa Integrazione, della mobilità, della disoccupazione ordinaria e requisiti ridotti.
Con quali effetti?  Un miliardo di ore di cassa integrazione (ordinaria e straordinaria) autorizzato tra l’ottobre 2008 e il dicembre 2009; queste ore hanno coinvolto un numero di lavoratori che, calcolando un livello medio di ricorso alla cassa pari a 25 settimane, ha superato il milione; per questo milione di lavoratori i riflessi della loro condizione sul reddito sono stati molto pesanti, perchè ogni lavoratore che ha usufruito della cassa integrazione (ordinaria o straordinaria) per 5 mesi, ha perso tra i 3.000 e i 3.500 euro.
Insomma, la difesa dei profitti e la crisi del sistema capitalista rendono conto di un diritto del lavoro sempre più emergenziale, dove le regole saltano, i salari si abbassano, aumentano i licenziamenti spesso camuffati in esternalizzazioni, cambi di appalto e delocalizzazioni della produzione.
Ma con la crisi che avanza e la perdita del potere di acquisto, i lavoratori hanno dato vita a un nuovo ciclo di lotte.
A parte le modalità di protesta, va sicuramente salutata con favore una tendenza che è emersa in maniera chiara: precari e lavoratori stabili, lavoratori stranieri e italiani, dipendenti di ditte  esterne (spesso cooperative) e dell’azienda committente, hanno creato fronti di lotte unitarie, sfondando il muro della divisione che molti dei provvedimenti sopra esaminati avevano reso possibile e dimostrando che la solidarietà e l’unione paga. La lotta del collettivo dei lavoratori dell’Ikea, nato soprattutto fra lavoratori dipendenti delle ditte appaltate che con perseveranza ha cercato di creare una piattaforma trasversale e comune a tutti i lavoratori, ne è un importante esempio.
Auspicabile è perciò che le lotte operaie proseguano in questa direzione.

Melissa Mariani

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