Stato di discriminazione permanente.

G. Dambrosio

 

Dopo le lotte contro il colonialismo (cui si invita la lettura del rimosso saggio di F. Fanon I dannati della terra) e i movimenti  per i diritti civili, il razzismo, in senso tradizionale, è indubbiamente tramontato, (se pur ancora marginalmente sopravvive nella forma della nostalgia ideologica).
Nonostante la fine dell’apartheid in Sud Africa è definita dai più come la simbolica conclusione di un’epoca di segregazione razziale, il razzismo in quanto tale non è per nulla regredito, anzi, nel mondo contemporaneo si è ulteriormente sviluppato sia in estensione che in intensità, poiché le categorie di superiorità e civilizzazione sulle quali si fondava il colonialismo economico e politico che normava la produzione, sono le medesime che oggi dominano l’orizzonte post-coloniale. Tali categorie si sono infatti essenzialmente globalizzate, ossia il modello di produzione capitalista fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il paradigma morale del maschio bianco lavoratore, eterosessuale tanto meglio se cattolico e del suo alter ego femminile, incarnano l’idea di compiutezza che regola la scansione temporale e la partizione spaziale in funzione delle esigenze produttive su scala mondiale.
Quali sono dunque le sue nuove forme e  le sue strategie?
Ebbene, la parola razzismo ( da “razza”: termine proprio dell’allevamento animale che viene applicato all’uomo solo a partire dal Seicento), a prima vista, conviene perfettamente all’accezione biologica, ossia, rimanda a quella teoria (di cui il primo teorico sistematico sarebbe stato Gobineau, che nel 1854 scrisse: “Essai sur l’inégualité des races humaines”) che sosteneva l’esistenza delle differenze biologiche tra le razze, che il sangue e i geni, giustificano le differenze del colore della pelle e sono la sostanza di tutte le differenze razziali.
In quest’ottica la natura umana era essenzialmente concepita divisa in razze che costituivano delle unità biologicamente isolabili, da cui inevitabilmente derivava che i popoli subordinati venivano rappresentati come ‘non uomini’ e differenti in senso propriamente ontologico.
Nel corso della storia il nazismo ci ha purtroppo mostrato i tragici risvolti a cui la realizzazione delle finalità insite in una tale weltanschauung (visione del mondo) ha condotto il genere umano.
Ma la parola razzismo, in realtà racchiude in sé un significato molto più ampio (ossia non riconducibile alla sola concezione biologistica), e starebbe ad indicare, secondo la fortunata definizione di C. Guillaumin del 1972: “qualsiasi atteggiamento di esclusione che assume il carattere della permanenza”; ed ampliando e specificando possiamo dire ch’essa s’afferma attraverso la: “valorizzazione, generalizzata e definita, di differenze, reali o immaginarie, a vantaggio dell’accusatore e ai danni della vittima, al fine di giustificare un’aggressione o un privilegio”, (A. Memmi Il razzismo, 1982).
Vediamo dunque che il discorso sulla divisione delle razze e sulla loro conseguente collocazione in scala gerarchica, risulta un concetto limitante e superato nel mondo contemporaneo e comprendiamo che i modi di relazione in cui si manifesta nel tempo e nello spazio la parola razzismo, sono dunque innumerevoli, ma la logica di base che li accomuna è comunque la stessa, ossia l’esclusione sociale, l’esclusione radicale di un gruppo (o l’inclusione ‘differenziata’) decretata e imposta da un altro gruppo che possiede in una determinata situazione un potere maggiore.
Possiamo affermare che, oggigiorno, l’argomento della disuguaglianza biologica ha così ceduto il passo all’assolutizzazione delle differenze tra le culture.
Il differenzialismo culturale non vuole esprimere, al contrario del razzismo biologico, un giudizio di valore sulla superiorità di un popolo o di un’etnia sugli altri: esso nega l’etichetta di teoria razzista assegnatale dai suoi oppositori, (politica delle differenze). Stabilendo l’irriducibilità delle diverse culture e l’imperativo alla loro separazione, il differenzialismo si traduce, di fatto, in meccanismo di chiusura sociale, di esclusione e non come affermano i suoi sostenitori nella salvaguardia dell’identità etnica. Tale ideologia è una sorta di razzismo di per sé, dal momento che essa può essere usata come forma di travestimento tattico del razzismo inegualitario, mediante una sua riformulazione più socialmente accettabile.
Il razzismo ‘differenziale’ o ‘culturale’ (come lo definisce il filosofo francese E. Balibar) abbandona dunque la biologia nella sua funzione di supporto e fondamento, sostituendolo con la cultura; i razzisti contemporanei affermano che le differenze tra le culture e le tradizioni sono insormontabili ed è dunque futile, se non dannoso concedere alle culture il potere di mescolarsi o sostenere che dovrebbero farlo, (negazione dell’ibridazione).
Oggi, dunque, il clichè dell’antirazzismo classico, basato sul culturalismo e sul differenzialismo, non è più così valido nell’ottica della visione esclusivista del razzismo perché, ove ciò fosse, le tesi e le argomentazioni dell’antirazzismo tenderebbero a confondersi con quelle del ‘neorazzismo’ differenzialista e culturale. Esso attacca le moderne teorie antirazziste alle spalle, cooptando ed annoverando i suoi argomenti tra le sue speculazioni.
Il razzismo e l’antirazzismo contemporaneo dicono pressoché le stesse cose, poiché entrambe concordano sul fatto che le razze non sono delle unità biologicamente inseparabili, che il comportamento e le capacità umane non dipendono dal sangue e dai geni e che tali differenze non sono fisse e immutabili, ma dovute agli effetti contingenti prodotti dalla storia sociale. Ossia, per quanto si differenzino in base alle finalità (società multirazziale vs ghettizzazione sociale), sono comunque pensate all’interno della cultura occidentale e generano limiti e contraddizioni insanabili, come ad esempio il passaggio dal multiculturalismo al multirazzismo, strumentalizzato dalla destra italiana.
Il neorazzismo si presenta dunque come simbolico, è un razzismo senza razza ( per dirla con E. Balibar) proprio dell’epoca antirazzista e post-nazista, poiché esso opera indipendentemente dal riferimento alla razza, in senso biologico, e non occorre un indottrinamento di matrice razzista perché si possa assistere a comportamenti razzistici.
Come agisce, si muove questo ‘neorazzismo’?
Ebbene, metterei a questo punto l’accento sulla funzionalità del razzismo come strumento di dominio, di sfruttamento e di conservazione dei privilegi dei gruppi dominanti, poiché avviene che,  coloro i quali volta a volta sono ‘superiori’ sono in grado di fare sentire ai meno potenti che questa qualità ad essi manca, che essi sono ‘inferiori’, ossia che non hanno raggiunto un certo ‘grado di sviluppo’ (oggi determinato essenzialmente dallo sviluppo tecnologico), che sono ‘indietro’ rispetto ai parametri imposti dalla peculiare ‘idea di progresso’ (maschile ed eurocentrica), a cui nel corso della storia si è data una valenza assoluta, (sono ‘mancanti’ l’africano rispetto all’europeo e la donna rispetto all’uomo).
La gerarchizzazione tra le diverse razze si determina, quindi, solo a posteriori come effetto della loro cultura, sulla base delle loro ‘prestazioni’ in virtù della produzione nel sistema capitalista (sistema fondato sull’ineguaglianza permanente).
La supremazia si ricava dunque dalla ‘libera concorrenza’, da una specie di mercato meritocratico della cultura ( A. Negri, Impero).
Si aprono a questo punto due modalità (strategie) di messa in atto del ‘razzismo culturale’, che sono: quella dell’esclusione vera e propria di un determinato gruppo (vedi il fenomeno dell’immigrazione, ma è strategia che si applica allo sconfinato campo della ‘diversità’: nomadi, omosessuali, ecc.  ) ossia la strada dell’espulsione con la forza o della segregazione permanente (potremmo qui annoverare le svariate forme di reclusione e di dispositivi di immobilizzazione sociale), o quella dell’inclusione differenziata, ossia dell’accettazione a fini strumentali, come ad esempio la collocazione dell’extracomunitario al gradino più infimo e negletto della scala sociale e dunque della sua esclusiva utilizzazione come ‘carne da lavoro’o il riconoscimento e la tolleranza dell’omosessualità tramite la collocazione in determinate aree di produzione e consumo protette (qui potete rimanere!), al fine di mortificare ogni antagonismo che possa far emergere tutta l’irriducibile complessità del genere umano.
Entrambe le modalità sono utilizzate in modo altalenante o modulare per rendere efficace il sistema di controllo neoliberista.
Potrei affermare che così come il razzismo biologico è stato lo strumento prediletto utilizzato dall’imperialismo per la propria espansione ed il proprio accrescimento, così il razzismo differenziale è lo strumento principe utilizzato dal neoliberismo per le medesime ragioni.
Il razzismo è dunque una funzione; è la giustificazione di atteggiamenti e di atti di discriminazione permanente, al fine di rassicurarsi e di affermarsi a danno dell’Altro.
La lotta contro il razzismo, dunque, coincide inevitabilmente, con la lotta contro l’oppressione.
Possiamo qui enucleare due assiomi con cui il pensiero neorazzista si presenta oggigiorno: il primo è che si crede esistono categorie di uomini differenti (=inferiori) da altri in maniera anomala, il che si traduce nell’introduzione di differenza nella differenza. Ai diversi si rimprovera non il fatto di essere diversi, ma di esserlo in modo anomalo, dunque cattivo o brutto secondo la morale, l’etica, la civiltà del gruppo di appartenenza dell’uomo superiore, (non si stigmatizza, ad esempio, lo zingaro per essere zingaro, ma perché egli vive come uno zingaro, dunque come si ritiene che vivano tutti gli zingari, prediligendo il nomadismo, l’accattonaggio, la nullafacenza e la ruberia).
Si tratta di quel fenomeno generalizzato che vuole rappresentare come ‘degenerate’ soggettività le cui connotazione di genere, ‘razza’, classe e sessualità le rendono oggetto di processi disciplinari di controllo e repressione dei comportamenti. In tal senso il ‘decoro’, ciò che si presenta come ‘decoroso’ e dunque che non lede l’etica del gruppo dominante, è diventato un principio che ha funzione normativa e totalizzante (N.Poidimani, La trappola della rispettabilità).
Il secondo  è che si ritiene che gli uomini anormalmente diversi siano anche pericolosi e inutili per il proprio gruppo di appartenenza.
A coloro che si considerano anormalmente diversi spetta, per natura, il rifiuto sociale in modo incondizionato in quanto inassimilabili (nazionalismo razzializzato) o inadatti (utilitarismo capitalista, immaginario eugenista). Con quest’ultimo assioma si è giunti a quel processo di ‘criminalizzazione del diverso’ e di ‘valorizzazione dell’odio’ che in Italia, è oggi il cavallo di battaglia di partiti politici quali la Lega Nord e Forza Nuova.
Assistiamo oggi nell’ Italia post-fascista e post-coloniale ad un consolidarsi e accrescersi di politiche che asservono questo razzismo culturale. Migliaia e migliaia di cittadini si fanno sbandieratori nelle scuole, nelle aziende e sul proprio territorio, della loro ‘superiorità sociale’ o meglio con la violenza perpetrano il mantenimento della loro posizione di potere rispetto ai gruppi più deboli di migranti, nomadi, ecc… (“la categoria dell’immigrazione sostituisce e diventa il nome di razza” si veda: E. Balibar, L. Wallerstein, Race nation classe. Les identités ambigues e P. Taguieff La force du prejugé). 
Emblematici esempi ne sono per quel che riguarda l’inclusione ‘differenziata’, la proposta di legge della Lega Nord della creazione nella scuola di classi differenziate per bambini italiani (magari un domani padani, meridionali, ecc.) e di diversa origine etnica previo il superamento di un test linguistico e attitudinale. Per quel che concerne l’esclusione sociale, l’iniziativa di raccolta di firme denominata “Via gli zingari da casa nostra”, sempre per mano della Lega Nord, tenutasi a Verona nel settembre 2001, (a cui si rimanda la lettura della sentenza 2.12.2004/24.2.2005 n. 2203 – est. Di Camillo, del Tribunale di Verona), emblematico caso di incitazione a commettere atti di discriminazione per ragioni razziali ed etniche, mascherate dai poi imputati a processo leghisti, dalla volontà di condurre un innocente “battaglia per il ripristino della legalità”, nella città di Verona.
Ebbene, tali politiche delle ‘strade pulite’ e della ‘tolleranza zero’ in totale ascesa sono abilmente giocate sul terreno della paura, sulla sua strumentalizzazione (ossia la sua utilizzazione scientifica e sistematica), al fine di farla crescere di continuo, poiché dove c’è paura non c’è responsabilità, ma esclusiva legittimazione delle regole repressive, (tenendo ben presente che la retorica sulla assenza di sicurezza non ha nessun riscontro empirico).
Dunque, potremmo concludere affermando che un importante aspetto del governo della paura, le politiche repressive ‘razziste’, (partita giocata su scala mondiale, che contribuisce allo sviluppo delle tecnologie della sorveglianza. Si veda J. Simon Governo della paura) sono in realtà una guerra ai poveri; ma se concentriamo l’attenzione anche sui dispositivi del potere come formalizzazione di determinati stili di vita, possiamo affermare che le politiche della sicurezza, la cui nuova e potente arma è il razzismo culturale, hanno al centro la difesa e l’esaltazione dello stile di vita della classe media, (quella classe media che oggi brucia i campi rom, bastona a morte un giovane afroitaliano reo del furto di un pacco di biscotti, che si barrica dietro recinzioni e allarmi d’ogni sorta, che istituisce ronde per il controllo territoriale, ecc.), che mira a colpire gruppi della popolazione ritenuti ‘nemici della società’, in realtà sono il volto delle contraddizioni devastanti che attraversano questa società capitalista.

Milano, ottobre 2008

 

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