MANOVRA D’ESTATE, OVVERO:

Carta vince, carta perde è lo slogan dei biscazzieri da strada. E si perde sempre…
Scrivevamo qualche tempo fa, in merito all’abolizione dell’ICI, che i lavoratori avrebbero pagato a caro prezzo la soppressione dell’ICI, in termini di perdita di servizi, di perdita monetaria e di peggioramento delle condizioni di lavoro.
Il decreto legge 112 pomposamente denominato “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, ma conosciuto come decreto-Brunetta (o Brunetta-Tremonti-Berlusconi se preferite tre mostricciattoli al prezzo di uno) ne è una chiara riprova.
E’ un decreto “corposo” articolato in 84 articoli raccolti in 5 “titoli” (Finalità e ambito di intervento; Sviluppo economico, semplificazione competitività; Stabilizzazione della finanza pubblica; Perequazione tributaria; Copertura finanziaria) a loro volta suddivisi in “capi”.
A tutti gli effetti è un guazzabuglio difficile da districare, dove si parla di tutto e di più: dalla durata di validità della carta d’identità, alla sorveglianza dei prezzi, all’innovazione tecnologica, ecc. ecc..
Tuttavia, superato il disagio che menti normali possono provare di fronte alla schizofrenia elevata a sistema di governo e di legislazione, ci si accorge presto che in quella follia c’è del metodo…
Infatti, filtrando la manovra contenuta nel decreto da alcune estemporanee, quanto implausibili e surreali, misure di piccolo risparmio (come ad esempio gli artt. 26 e 27, rispettivamente “Taglia-enti” e “Taglia-carta” o l’art. 15 sulla sostituzione dei libri scolastici con testi internet), quello che rimane è un disegno abbastanza preciso che utilizza la “riforma” della pubblica amministrazione (ovvero la riduzione delle sue funzioni e delle sue strutture) per colpire – più che le spese “superflue” – la condizione dei lavoratori, sia in quanto flessibilità generale che in quanto aumento della precarietà e peggioramento delle condizioni di vita. Tutto questo nel quadro “filosofico” della sostituzione delle norme legislative ai risultati della contrattazione sindacale.
Per analizzare in dettaglio il decreto, le sue ricadute dirette e le sue implicazioni si dovrebbe scrivere un libro. Affrontiamo dunque, per sommi capi, solo alcuni dei punti più rilevanti della manovra
 
La precarietà
La perpetuazione e l’estensione della precarietà lavorativa (e della flessibilità del lavoro) sono tra gli obiettivi centrali della manovra. Ciò viene attuato anche con l’estensione di forme di rapporto di lavoro assolutamente penalizzanti dal punto sia dal punto di vista salariale che da quello dei diritti minimi dei lavoratori.
Con l’art. 21 viene modificato il contratto a termine: il datore di lavoro, a differenza del passato, può assumere a tempo determinato per ogni tipo di attività lavorativa all’interno dell’azienda e non solo per quelle che non rientrano nelle attività ordinarie e prevalenti. Piena liberalizzazione dunque per le assunzioni precarie.
Anche il limite massimo di 36 mesi (la somma dei periodi effettuati con contratti a termine con mansioni equivalenti) viene a cadere. Infatti vengono fatte salve le disposizioni contrattuali che possono regolamentare quindi una diversa durata massima. Ciò significa che in fase di contrattazione decentrata o di secondo livello il limite dei 36 mesi può essere eluso.
Con l’art. 22 viene modificato il campo di applicazione modificando del cosiddetto contratto accessorio (ricordiamo che per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura totalmente occasionale) e viene abrogato l’articolo che individuava i possibili soggetti (lavoratori) destinatari. Ciò significa che il contratto può essere stipulato da chiunque, con un’ovvia dilatazione del campo della precarietà.
Con l’art. 23 viene abolita la durata minima (due anni) del contratto di aprrendistato (ferma restando la durata massima di 6 anni). Inoltre si stabilisce che la formazione può essere individuata aziendalmente; che il contratto di alta formazione (ricercatori), possa essere attivato anche in assenza di regolamentazione regionale (è sufficiente la convenzione con le università e le altre istituzioni formative) e in tale contratto vengono compresi i dottorati di ricerca. Infine l’abrogazione di una serie di adempimenti formali rende più semplice l’utilizzo dell’apprendistato: meno obblighi e vita più semplice per i datori di lavoro…
Con l’art. 39, infine Vengono abrogate una serie di norme parzialmente migliorative contenute nella Legge 247 del 2007, e riferite al contratto a chiamata per lavoratori stagionali che, in qualche modo, garantivano a questi lavoratori un minimo di tutela e di equiparazione di diritti con i lavoratori a tempo indeterminato. Si ritorna dunque all’infame legge Biagi.
 
La flessibilità lavorativa, contrattuale e salariale per i lavoratori pubblici
Il lavoro flessibile è il pendant necessario della precarietà lavorativa. La flessibilità lavorativa (le mansioni) va di pari passo con la flessibilità contrattuale (già sancita dall’ipotesi di nuovo modello contrattuale di parte confederale) e con quella salariale (dilazione dei rinnovi e tetto dell’inflazione prevedibile o programmata). Non è difficile vedere che siamo di fronte ad una manovra a tenaglia con la quale le “parti sociali” (datori di lavoro e confederali) e il governo attaccano i lavoratori.
Con l’art. 49 viene ribadita la possibilità dell’utilizzo di “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale” qualora si presentino “esigenze temporanee ed eccezionali” (che di fronte al ridimensionamento delle funzioni della pubblica amministrazione e alla riduzione del personale, saranno sempre più frequenti) e soprattutto si blocca ogni possibilità di assunzione a tempo indeterminato per i lavoratori precari, anche se impiegati impropriamente in mansioni tipiche dei lavoratori a posto fisso.
Con l’art. 67 si opera un pesante taglio ai finanziamenti dei vari contratti che si aggiunge al ritardo dei rinnovi. Nonostante la strombazzata “emergenza salariale”, non solo non ci sono aumenti reali di salario (il biennio 2008/09 prevede solo un aumento del 3,2% a fronte di un’inflazione più che doppia), ma si decurtano quelli già consolidati con la riduzione dei Fondi Unici che vengono diminuiti del 10% rispetto ai tetti, già bloccati, del 2004. Questo con una ripercussione pesantissima sulla condizione economica dei dipendenti: si perdono infatti, in alcuni casi, il corrispondente di due o più rinnovi contrattuali.
Inoltre il taglio alle disposizioni speciali per alcuni comparti ha un effetto devastante con perdita di ulteriori parti consistenti di salario.
Infine, il ruolo della Corte dei Conti diventa vincolante e la trasforma in un altro agente contrattuale, che non ha obbligo di confrontarsi con le altre parti. Senza il suo parere favorevole alla sottoscrizione del contratto, non solo non si può procedere, ma bisogna riaprire le trattative.
Con l’art.69 ci si predispone alla triennalizzazione del contratto, dando per scontato che non ci sarà possibilità di confronto sul modello, ma verrà adottato quello di confindustria.
Con l’art.73 infine si colpisce il part-time che cessa di essere un diritto individuale e diventa una semplice concessione da parte delle amministrazioni e quindi una condizione dalla quale diventa sempre più difficile tornare al tempo pieno.
 
La riduzione degli organici
La manovra è chiara: si incentiva l’esodo dei dipendenti (art. 19: abolizione del cumulo tra pensione e redditi da lavoro; art. 72: Personale dipendente prossimo al compimento dei limiti d’età per il collocamento a riposo), non si stabilizzano i precari, non si fanno assunzioni. La conseguenza prevedibile è un aumento dei carichi di lavoro ai quali si dà risposta riducendo i diritti di assentarsi dal lavoro per qualsiasi motivo, compresa la malattia. Il tutto senza aumenti salariali, anzi, come vedremo in seguito, con una riduzione del salario accessorio.
Con l’art.66 le assunzioni ordinarie subiscono una forte limitazione e si introduce l’ulteriore tetto delle unità cessate. Per il 2008  e il 2009 si prevedono assunzioni con un fondo di 75 milioni  (25 per il 2008 e 50 per il 2009) e si abroga l’analogo fondo previsto dalla finanziaria 2008.
Per il 2010 si riduce il turn over dal 60% al 20%, così come per il 2011. Per il 2012 è previsto il 50% del turn over. Le università vengono comprese nelle limitazioni all’utilizzo del turn over. Inoltre viene disposta la riduzione del fondo ordinario (FFO) di complessivi 455 milioni entro il 2013 (63,5 per il 2009, 190 per il 2010, 316 per il 2011, 417 per il 2012, 455 per il 2013).
Infine lo sblocco completo delle assunzioni per tutta la Pubblica Amministrazione è rimandato al 2013.
Per quanto riguarda le stabilizzazioni dei contratti a tempo determinato, si considerano chiuse al 2009, con una consistente riduzione dei numeri previsti. Infatti, oltre a ridurre le percentuali di turn over utilizzabili, si fa anche qui riferimento alle unità cessate e non alle risorse disponibili, causando un’ulteriore riduzione delle stabilizzazioni.
Non si interviene sulle norme di stabilizzazione delle forme contrattuali diverse dai contratti a tempo determinato disposte dalla finanziaria 2008 (L.244/07) per le quali però si tiene bloccato il DPCM necessario alla loro realizzazione, con la evidente volontà di farle cadere nel dimenticatoio.
L’intervento sulle false collaborazioni è del tutto inadeguato. Il limite di tre anni anche con forme contrattuali diverse non chiarisce che fine faranno coloro che lavorano negli enti da più di tre anni, con il rischio concreto che i lavoratori precari che in questi anni hanno consentito agli uffici di svolgere la loro funzione vengano licenziati.
 
Il peggioramento delle condizioni dei lavoratori pubblici
E’ questo un attacco particolarmente odioso perché colpisce lavoratori in condizioni disagiate. La campagna denigratoria sui “fannulloni” e il mito della “produttività” producono anche queste nefandezze.
Con l’art.70 si peggiorano i  trattamenti economici per infermità dipendente da cause di servizio con l’esclusione dai trattamenti aggiuntivi. Siamo di fronte ad un vero e proprio tentativo di intimidazione contro le richieste di riconoscimento di eventuali cause di servizio.
Con l’art. 71 siamo alla definizione dello stato di malattia come elemento negativo da combattere per ridurre le assenze per il recupero del proprio stato di salute. Il primo passo è l’introduzione per tutti della tassa sulla malattia, i primi 10 giorni di assenza per malattia produrranno un danno economico rilevante perché si esclude il pagamento delle indennità aventi anche carattere fisso e continuativo. I risparmi così ottenuti vengono considerati economie di bilancio.
L’intento punitivo dell’articolo si manifesta comunque nella dilatazione delle fasce orarie della possibile visita di controllo che diventano 8-13, 14-20. Una sorta di “arresti domiciliari”.
Inoltre le assenze dal servizio per permesso retribuito non sono equiparati all’orario di servizio per quanto riguarda la distribuzione dei fondi contrattuali. Ci sono delle eccezioni, ma in queste non sono contemplati i permessi sindacali. Si applica, probabilmente, anche per questi l’esclusione da una parte del salario accessorio.
 
Le privatizzazioni
La privatizzazione dei pubblici servizi è un obiettivo dichiarato delle politiche governative. Quella dell’Università e degli istituti di ricerca viene perseguita con una triplice manovra: da un lato la riduzione dei fondi stanziati, dall’altro con l’attacco all’occupazione (vedi art. 66, stabilizzazioni e turn over), dall’ultimo con la futura trasformazione in fondazioni.
Con l’art. 16 che prevede la trasformazione delle Università in fondazioni, si sottrae di fatto alla gestione pubblica una parte importante della ricerca scientifica e della formazione.
La fondazione permette l’ingresso dei privati, in qualità di investitori in un settore delicato. Non è c’è solo il problema del finanziamento (comunque importante, visto il taglio dei fondi pubblici), ma si prefigura un intervento diretto dei privati nella gestione. Il risultato sarà un ricerca orientata dal privato in maniera molto più accentuata di quanto lo sia adesso e una “formazione” finalizzata all’interesse del privato.
Si prevede poi una differenziazione contrattuale per gli operatori delle fondazioni che conserverebbero l’attuale normativa solo fino al prossimo rinnovo contrattuale. Non si capisce bene bene cosa poi si preveda. Forse un altro comparto per le fondazioni?
Non è chiaro neppure il destino degli attuali policlinici universitari. Se resteranno fuori dalla trasformazione in fondazione, potrebbero essere consegnati direttamente ai privati, perdendo un pezzo importante del servizio sanitario nazionale. Dalla padella nella brace.
 
Questa sintetica analisi di alcuni capisaldi del decreto Brunetta, la dice lunga su quello che possiamo aspettarci per il prossimo futuro: un attacco continuo alla condizione complessiva dei lavoratori, sviluppato in un contesto di sostanziale concertazione tra le “parti sociali” e il governo.
Attacco, lo abbiamo visto, che colpirà i lavoratori anche nella loro condizione di utilizzatori di pubblici servizi, destinati a funzionare sempre peggio e a lasciare spazio alla gestione privata.
Che cosa è possibile fare?
Nulla, ovviamente, possiamo aspettarci dai balbettamenti dei sindacati confederali, la cui massima aspirazione – e lo abbiamo già visto – è il monopolio della rappresentanza, costi quel che costi.
Nulla possiamo aspettarci dai vaneggiamenti dell’opposizione politica (dentro o fuori il parlamento, istituzionale o “radicale” che sia), preoccupata di conservare il suo status di interlocutore privilegiato.
E allora, non ci stancheremo di ripeterlo, l’unico modo per rispondere è che i lavoratori riprendano coscienza di sé; del loro ruolo di unici produttori di ricchezza che gli viene regolarmente sottratta; della propria forza in quanto classe; della necessità di un sindacalismo vero, realmente rappresentativo perché fondato su lotte radicali e su obiettivi precisi, come il recupero salariale non legato alla produttività e l’eliminazione della precarietà in ogni sua forma. Altro non risolverebbe nulla.
 
Guido Barroero

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