Le rivoluzioni dei gelsomini e di piazza Tahrir sbarcano in Europa

Quando all’inizio di quest’anno abbiamo sentito parlare di rivoluzione dei gelsomini, di piazza Tahrir e di un crescendo di eventi che accendevano il fuoco dell’insorgenza in molti paesi dell’area mediorentale, ho avuto la percezione chiara di quanto fosse scarsa la mia conoscenza di quei paesi: quelle mobilitazioni così estese e dirompenti raccontavano di un fermento sociale costruito nel tempo e sedimentato nella popolazione che era a me del tutto ignoto.
Da dove partono storicamente queste rivolte? Qual’è la composizione sociale che le anima? Si tratta di ceti operai? di categorie di giovani istruiti e proletarizzati senza prospettive? di gente privata di una precisa collocazione sociale per via degli effetti delle politiche neoliberiste, o altro ancora? Qual’é la composizione politica di queste rivolte? Cosa cambia dopo le rivolte a livello politico?
Se queste, e molte altre, sono le domande che affiorano per cercare di avere una conoscenza minima della situazione dei vari paesi di quell’area geografica, nel tentativo di comprendere i fatti cui abbiamo assistito e di individuare le possibili prospettive e relazioni, c’è però un’altra rivoluzione agita proprio qui, in Italia e in Europa, dagli stessi soggetti che nei loro paesi li avevamo visti scendere per le strade, organizzarsi nella piazze, distruggere palazzi, scontrarsi con le forze dell’ordine, scrivere messaggi sul network per raccontare le loro giornate e poi gioire per una rivoluzione riuscita.
Già perchè in Europa, appunto, alcuni di quei tunisini ed egiziani sono arrivati. Molti sono morti, anche a causa dei mancati soccorsi, ma molti altri sono riusciti ad arrivare, vivi ed in cerca di democrazia, come molti di loro affermano quando evocano la possibilità di ritornare tra qualche mese, a processo di democratizzazione compiuto.
Né disperati né profughi, dunque, non comparse ma soggetti, corpi che mettono in evidenza, con il semplice fatto dello stare, lo spazio di sospensione delle politiche di controllo delle migrazioni. E che l’attraversamento delle frontiere agito dai tunisini ed egiziani giunti a Lampedusa rappresenti un empasse è fuor di dubbio solo che si considerino le reazioni emergenziali e contraddittorie del governo italiano e dell’Unione Europea.
La farsa del permesso di soggiorno temporaneo
In Italia ventimila persone giunte dal nord Africa a partire dallo scorso febbraio vengono immediatamente presentate come un grave problema di ordine pubblico (laddove al confine tra Libia e Tunisia ne abbiamo viste transitare 300.000), in un contesto di emergenza creato ad arte dal governo. Lampedusa viene trasformata in una prigione a cielo aperto e lo stato di emergenza viene sancito da un decreto, con cui si affidano tutte le competenze di accoglienza alla Protezione Civile. Di ciò che rimaneva del diritto d’asilo e delle norme comunitarie sugli standard minimi della protezione e dell’accoglienza nessuna traccia: i migranti sono deportati in massa in centri di confinamento allestiti in tutta urgenza, strutture come tendopoli e caserme presidiate e sorvegliate, spesso sigillate, dove i fondamentali diritti vengono calpestati insieme alla dignità. Tutta l’operazione (per cui il Governo ha promesso 100 milioni di euro!) viene affidata alla Protezione Civile, suggellando il passaggio dell’accoglienza da materia sociale a materia di “catastrofe”.
I migranti ricevono un permesso per motivi umanitari della durata di sei mesi, ma diventa subito chiaro che si tratta di un pezzo di carta usa e getta, zero diritti e zero prospettive per il suo titolare. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 5.4.2011 prevede infatti la concessione di un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi, da richiedere entro il termine massimo di 8 giorni e solo per coloro che siano giunti in Italia entro il 5 aprile. La fissazione di un limite di tempo per riconoscere un permesso temporaneo per protezione umanitaria a coloro che provengono dal Nord Africa è palesemente arbitraria, perchè gli sbarchi continuano così come il protrarsi della situazione critica in questi paesi. Altrettanto pretestuosa è la previsione in base alla quale la richiesta del permesso di soggiorno per protezione umanitaria deve avvenire entro 8 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dal momento che si tratta di un arco temporale inadeguato per fornire informazioni complete ai soggetti interessati circa le caratteristiche e le modalità di rilascio del suddetto permesso di soggiorno.
La farsa è chiara: sebbene formalmente vengano riconosciuti a dei soggetti alcuni diritti non si concedono contestualmente le condizioni necessarie per il loro godimento. In realtà il permesso di soggiornare concesso dal governo italiano ai nord-africani delle recenti rivoluzioni dissimula l’esigenza di farne defluire il più possibile verso la Francia.

Le politiche di rimpatrio e le insanabili contraddizioni del diritto dell’Unione europea
La fantasia del governo italiano, però, non ha fatto bene i conti con l’orizzonte di fondo su cui da ormai più di dieci anni poggiano le politiche di contrasto all’immigrazione messe in atto dall’Unione europea. Difatti la Francia, senza troppi giri di parole, ha subito chiarito di non avere alcuna intenzione di fare entrare nel proprio territorio queste persone, ancorchè dotate di permesso di soggiorno; e negli ultimi giorni abbiamo sentito le dichiarazioni di diversi rappresentanti di stati europei volte a rimettere in discussione la libera circolazione nello spazio Schengen.
“Ovunque, ma non in Europa”, è stata in effetti la parola d’ordine e la filosofia ispiratrice delle politiche comunitarie di controllo delle migrazioni: agire prima della frontiera, prevenire l’arrivo, respingere e cancellare i corpi prima del loro passaggio. Le politiche di contrasto si sono nel corso degli anni trasformate in politiche di esternalizzazione con il conseguente appoggio dei dittatori di turno.
Ecco allora che appare chiaro come, anche nel caso dei tunisini ed egiziani giunti a Lampedusa, la strada maestra da seguire sia unicamente quella dei rimpatri forzati e dell’imprigionamento, col tacito assenso dell’Unione Europea.
Se da un lato, infatti, il governo italiano è riuscito a strappare al nuovo governo tunisino un accordo per il rimpatrio di 800 tunisini giunti irregolarmente in Italia dopo il 5 aprile 2011, numerose sono le denunce circa le irregolarità delle operazioni di rimpatrio. Inoltre continuano a restare in vigore e vengono applicati gli accordi di riammissione conclusi con Mubarak e anche nel caso della Libia molti, nel rimpiangere la collaborazione assicurata dal 2009 da Gheddafi, auspicano di praticare ancora respingimenti collettivi in mare e la delocalizzazione dei centri di detenzione in Libia, dopo la fine delle ostilità, quale che sia l’autorità nazionale che si potrà insediare su quei territori. Contemporaneamente a tali misure inoltre il governo italiano ha adottato una nuova ordinanza d’emergenza con la quale si individuano 3 nuovi centri di identificazione ed espulsione temporanei e si trasformano in altrettanti centri di detenzione temporanea le strutture inizialmente predisposte per la prima accoglienza, dove verranno quindi rinchiusi i migranti a cui è stato impedito di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo.
I rimpatri di massa, l’istituzione di nuovi centri di detenzione amministrativa, le modalità di imprigionamento collettivo attuate in tali centri risultano in collisione con le previsioni della Direttiva Rimpatri n. 115 del 2008, che nell’indicare una procedura comune agli stati comunitari per l’esecuzione dei rimpatri, individua una gradazione delle misure da adottare, che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità, e perfino il ricorso alla più restrittiva di tali misure – il trattenimento – deve essere strettamente regolamentato segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi.
Poco importa che proprio pochi giorni fa la Corte di Giustizia Europea abbia condannato l’Italia riconoscendo il contrasto insanabile di gran parte della disciplina nazionale in tema di espulsioni e trattenimenti rispetto alla Direttiva rimpatri: quell’“ovunque ma non in Europa” è il messaggio che silentemente promana dalle istituzioni comunitarie nell’indicare all’Italia la direzione dell’azione di fronteggiamento dei flussi provenienti dal nord-africa, senza farsi troppi problemi sulla compatibilità delle misure intraprese con le normative che da quelle stesse istituzioni promanano.

Percorsi comuni
L’inesistenza di alcuna concreta misura di accoglienza è l’ulteriore aspetto taciuto di questa vicenda: i piani di accoglienza condotti sotto l’egida della Protezione Civile e che prevedono la dislocazione dei migranti in varie regioni d’Italia sono macchinosi e in gran parte non sono neppure ancora partiti. E così molte di queste persone, sebbene con in tasca un permesso di soggiorno e un titolo di viaggio, non soggiornano nè viaggiano. A Milano, come in molte altre città, incontriamo persone che si spostano. Dai giardini davanti alla stazione a un altro giardinetto, da una piazza a una strada. Di giorno e di notte. Non sanno dove mangiare, dove dormire, dove lavarsi, dove cercare vestiti per potersi cambiare: un permesso di soggiorno per non soggiornare e un titolo di viaggio per restare incagliati, presi nelle maglie di un’Europa che costruisce reti di confinamento e non prevede esistenza.
Letti in questa prospettiva gli accadimenti di quest’ultimo periodo ci descrivono un’esperienza, quella di migranti identificati per non essere previsti da nessuna parte, che a ben vedere non è molto diversa da quello che sta accadendo a noi tutte e tutti: si prende il diploma per avviarsi ad un’esistenza precaria, o a un altro luogo come l’università in cui sostare, completare la propria formazione, prepararsi ad occupare un posto nella società per poi invece scomparire nei call center, nei contratti a progetto, o emigrare all’estero; ci si sposta da un posto di lavoro all’altro, da un periodo di disoccupazione ad un altro, nell’esperienza della precarietà.
Ecco allora che riprendersi lo spazio delle città e in generale della terra, inventare pratiche per agire in questo senso, dove non essere recintati né sospesi, diventano esigenza comune e al contempo indicano una prospettiva di azione condivisa che possa superare la frammentarietà delle rivendicazioni e delle lotte.

Melissa Mariani (questo articolo è anche frutto di un lavoro fatto insieme al collettivo “Le251” sui recinti e le barriere che ingabbiano le nostre vite a cui rimando:
www.leventicinqueundici.noblogs.org)

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