La giornata del ricordo

Basterebbe fermarsi a dire che la Giornata del Ricordo ha un’origine non
nobile ed una datazione ignobile.

Origine non nobile: la vocazione della Destra italiana di ridurre gli
effetti negativi derivanti dalla commemorazione, pochi giorni prima – il
27 gennaio, della Giornata della Memoria, proclamata in coincidenza con
la Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime
dell’Olocausto decisa dall’ONU.
Ignobile inoltre è la datazione: il 10 febbraio 1947 è stata la data
della firma del Trattato di Pace che pose fine alla seconda guerra
mondiale, scatenata dalle potenze fasciste: Germania, Italia e Giappone,
con i loro alleati minori.
La Destra, per altro, non si è ritrovata sola. Vari dirigenti dell’ex
Partito Comunista Italiano, dal triestino Stelio Spadaro allo
spregiudicato Violante, fino al presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, hanno partecipato a questa attività di “conciliazione
nazionale” e di facile propaganda antislava. Ricevendo severe lezioni di
storia dal presidente croato Mesic e da quello sloveno Turk.

L’Italia è quindi un paese ufficialmente “revisionista”, con tanto di
ideologia nazionalpopolare degli “italiani buona gente”. La Germania ha
svolto una riflessione morale e storica che ha permesso di fare ammenda,
almeno postuma, di una politica imperialistica che ha prodotto 50
milioni di morti in guerra (di cui 11 nei campi di concentramento) e
quasi 15 milioni di profughi tedeschi dai territori passati ad Urss,
Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia ed altri paesi. Qui da noi, invece,
il popolino ufficialmente disinformato reagisce incredulo quando si
ricordano loro – oltre alle corresponsabilità italiane nell’immane
sterminio generale – le centinaia di migliaia di vittime delle armi
italiane in Libia, Etiopia, Spagna, Albania, Grecia, Jugoslavia, Urss e
via discorrendo. Certo, in cambio di alcune centinaia di migliaia di
profughi dall’Istria e di alcune migliaia dalla Dalmazia, ma senza che
ci si ricordi pure che essi furono vittime in primo luogo
dell’imperialismo fascista e delle sue sanguinose avventure.

Eppure, a ben scavare, il materiale documentario mette spesso in crisi
semplificazioni e “storiografie” poste al servizio della ampia
propaganda di regime.
Come il documento che si riproduce in allegato, testimonianza di una
dialettica – sia nazionale che politica – fra i comunisti al confine
orientale. Comunisti internazionalisti, ma forse soprattutto
mitteleuropei. Indubbiamente rivoluzionari, ma niente affatto disposti
ad accettare la propaganda staliniana dei tempi del Cominform (che
voleva Tito ed il gruppo dirigente jugoslavo al servizio del “nemico di
classe”). Lavoratori senza frontiere, increduli se non insofferenti
della vieta propaganda di un Pci disponibile ad usare nella sua
propaganda il gergo del nazionalismo italiano contro gli jugoslavi.

Un quadro piuttosto frastagliato, come tutta la situazione
nell’inestricabile groviglio nazionale tipico dei territori ex
asburgici, dove la follia nazionalista – in primo luogo italiana –
voleva instaurare un regime oppressivo di chi italiano non fosse.
Situazione complicata, come era complicato il ruolo di quei dirigenti
cristiano-sociali sloveni che Raoul Pupo documenta vicino ai luoghi di
infoibamenti, non avendo il coraggio di andare fino in fondo nello
spiegare perché anche sacerdoti politicizzati non si sottraessero in
qualche modo alla vendetta di un popolo sottoposto a genocidio per un
ventennio. Complicata come quella del reparto osovano sterminato da un
reparto garibaldino alle malghe del Porzus: con un comandante
nazionalista monarchico, ed un commissario politico (Gastone Valente,
nome di battaglia Enea) che – come altri partigiani del Partito
d’Azione, come Guidalberto Pasolini – nel dopoguerra sarebbe stato
certamente alla testa delle lotte della sinistra operaia e contadina.

Gian Luigi Bettoli

Potrebbero interessarti anche...