LA CGIL. SINDACATO O GRANDE IMPRESA?

LA CAMUSSO COL COLBACCO
I tratti somatici da atleta sovietica d’altri tempi non sono l’unico aspetto arcigno del Segretario generale della CGIL. Guai a chi osi invadere un terreno così scivoloso per il suo sindacato (e per gli  altri sindacati confederali) come quello dei lucrosi introiti ricavati dalle più svariate attività extrasindacali.
D’altra parte, da un lato, è ben noto che da un punto di vista strettamente sindacale le cose vanno benissimo per lavoratrici e lavoratori e, dall’altro, si sa che i soldi per mantenere (precariamente) l’esercito di impiegati addetti ai servizi da qualche parte bisogna pur prenderli. Mai contenti! Non si risana così anche la piaga della disoccupazione?
E poi, perché mai la CGIL avrebbe spalleggiato ovunque i processi di esternalizzazione dei servizi,  se poi non avesse provveduto a sostituirne una parte in proprio con suoi uffici a impronta parastatale?
E così i fulmini della Camusso si sono abbattuti sull’incauto giornalista che ha osato elencare, tipo pagine gialle, quelle attività svolte a puro scopo umanitario. Ignorante, disinformato, colluso alla CISL, lesivo dell’onore dei sindacati confederali. Ma non basta, non potendo prendere provvedimenti contro il tapino, minaccia querele!
E dire che il giornalista anti-sindacale in odore di lesa maestà non ha voluto affondare i colpi. Ad esempio, non ha neppure fatto riferimento al palese conflitto d’interessi in cui si sono messi i sindacati confederali con la partecipazione alla gestione dei fondi pensionistici. Che fare? Favorire la rendita finanziaria o tutelare il salario? Perchè entrambe le cose difficilmente sono perseguibili.
D’altra parte, col sistema a capitalizzazione dei fondi pensione privati, perchè le pensioni non si azzerino (già ora si prevedono livelli futuri delle pensioni pubbliche pari al 45% dell’ultima retribuzione) occorre per forza far crescere le rendite delle società finanziarie!
L’aspetto tragicomico della faccenda è che i sindacalisti alla Camusso che sbraitano tanto contro i tapini, quando “concedono” ai lavoratori uno sciopero generale (molto tardivo e part-time) non lo proclamano contro i padroni, né quelli buoni come la Marcegaglia, né quelli un po’ birbanti come Marchionne. Altrimenti l’agognato patto sociale con chi lo fanno? Cosa importa se negli ultimi 20 anni i salari italiani sono precipitati dai primi agli ultimi posti tra i paesi OCSE? Cosa importa se, malgrado la devastante precarietà del lavoro e i salari da fame, il tasso di occupazione in Italia resta inchiodato agli ultimi posti della stessa classifica? Cosa importa se, anche con l’assenso della CGIL in presenza del suo ultimo governo amico, il fisco si è abbattuto in modo crescente su salari e pensioni per poterne sgravare i profitti e le rendite?
Ma si sa, il Mercato ha le sue leggi!… Preghino, i gruppi dirigenti dei sindacati “che contano”, che non si applichi a loro la regola della produttività, perchè, dati i risultati disastrosi, rischierebbero il licenziamento in tronco!

Sergio Casanova
(collaboratore esterno)

Meno conflitti, più servizi

Da un articolo di Salvatore Cannavò apparso su l’Espresso: “Perdiamo iscritti, e la Cisl potrebbe diventare nel medio periodo il più grande sindacato italiano”.

Quando Susanna Camusso ha lanciato questo allarme durante l’ultimo Comitato direttivo, lo scorso 23 febbraio, tra gli uomini della Cgil girava una voce inquietante: in provincia di Milano la Cisl sarebbe già il primo sindacato. A quel punto, le parole del segretario generale hanno messo in chiaro a tutti che non c’è più molto tempo per invertire la tendenza che porterebbe a uno storico sorpasso. Occorre fare in fretta, cambiare pelle, trovare nuovi canali di contatto con i lavoratori, attivarsi su nuovi fronti, proprio come sa fare bene la Cisl. Ed entrare in concorrenza con il sindacato guidato da Raffaele Bonanni soprattutto sul terreno dei nuovi business, quelli che fanno da compensazione alla difficoltà di trovare nuovi iscritti, e da argine alla crisi della contrattazione.
Lo slogan del futuro potrebbe essere: “meno conflitti e più servizi”. In sostanza, premere l’acceleratore sulle attività collaterali: quella dei patronati, ma soprattutto i nuovi filoni come la consulenza fiscale e previdenziale agli iscritti, quella sulle vertenze legali, o attività più propriamente economiche come gli enti bilaterali, fino alla presenza nei consigli di amministrazione di banche, fondi pensione, fondi sanitari. Avendo ben presente un rischio. Diventare un sindacatogestore, che si fa ente economico e giuridico, comporta la tentazione di trasformarsi in centro di potere, o luogo di smistamento di pratiche clientelari. Come ha dimostrato la “parentopoli” romana, che ha visto dirigenti sindacali più preoccupati di collocare figli e nipoti all’Atac, l’azienda pubblica di trasporto della Capitale, che della bontà del servizio pubblico.
D’altra parte, è dall’inizio degli anni Novanta, grazie alla concertazione, che il sindacato ha via via dato spazio a comitati paritetici, commissioni congiunte, organismi di vigilanza, tutti luoghi decisionali in cui i rapporti con imprese e governo si confondono. Prendiamo l’Inpdap e l’Inps: l’attività di vigilanza che i sindacati svolgono nella previdenza pubblica si traduce in un “Comitato di indirizzo e vigilanza” che ha ben 24 membri perché deve far posto alle associazioni dei lavoratori dipendenti (una decina), degli autonomi, dei datori di lavoro. Poltrone, e gettoni di presenza per tutti: 810 mila euro i compensi e i rimborsi pagati nel 2009 (sia pure in calo quasi della metà per effetto dei tagli di Tremonti). Senza contare l’ufficio di presidenza del Comitato, per il cui funzionamento l’Inps spende 221 mila euro, e il cui vertice è di pertinenza dei rappresentanti dei lavoratori dipendenti, ed è attualmente affidato a uno storico dirigente della Cgil, Guido Abbadessa (il quale prima ricopriva lo stesso incarico all’Inpdap).
Il nodo, per il sindacato, è quello dei soldi. Dagli oltre 5,7 milioni di tesserati (di cui 3 milioni pensionati) la Cgil ricava una cifra complessiva – stimando 10 euro mensili a testa – di oltre 680 milioni di euro all’anno, che servono a tenere in piedi una struttura poderosa, con 16 mila funzionari e sedi in tutto il paese; con lo stesso criterio di calcolo la Uil (con 2.184.000 tessere, tra cui 575 mila pensionati) incassa 250 milioni e la Cisl (con 4,5 milioni di tesserati di cui 2,2 pensionati) 540.
Se declina l’introito delle tessere, per tenere in piedi la baracca occorre dunque trovare nuove entrate. Quali?

Il santo patronato
I patronati (l’Inca-Cgil, l’Inas-Cisl, l’Ital-Uil) sono stati il primo business in cui il sindacato si è diversificato. Le entrate complessive di tutti i 27 patronati ammontano a circa 370 milioni di euro (dato 2009 tratto dalla Relazione generale sulla situazione economica del paese) e vengono dal disbrigo delle pratiche su contributi, pensioni, infortuni, immigrazione, ammortizzatori sociali, invalidità civili e previdenza sociale. Chi paga? Il ministero del Welfare, che gira al sindacato un contributo dello 0,226 per cento (ora ridotto da Tremonti allo 0,178) sul monte contributi delle pratiche che si concludono positivamente. L’Inca incassa circa 85 milioni, l’Inas 64 milioni, al terzo posto le Acli, con circa 40 milioni di contributi. Un legame così forte, quello con il ministero del Welfare, che il ministro Maurizio Sacconi sta studiando come compensare il taglio del collega dell’Economia: un’ipotesi è quella di appaltare alle sedi estere del patronato la selezione di badanti e colf da collocare nel mercato del lavoro italiano. Un affare con un potenziale di circa 20 milioni di euro.
Nei patronati il sindacato occupa una parte consistente della sua “forza lavoro”: sono 1.723 gli operatori della Cgil, 1.100 quelli della Cisl (le Acli arrivano a occupare ben 5.000 persone, volontari inclusi). Numeri di un’azienda medio-grande. Ma i patronati sono anche strategici sul piano delle tessere: si stima che metà delle pratiche pensionistiche risolte diano luogo a nuovi iscritti.

Tu litighi, io incasso
Gli uffici-vertenze si occupano di risolvere i contenziosi con le aziende, e non hanno contributi pubblici ma entrate volontarie. Vi ricorrono i singoli lavoratori o le cause collettive. Una singola vertenza genera mediamente tra i 1000 e i 2000 euro (ma alcune hanno prodotto anche 40 mila euro) e per ogni causa vinta il 10 per cento resta al sindacato. L’ufficio vertenze della Cgil-Lazio, per esempio, ha incassato in un anno un milione di euro.

Caaf in rosso
Poi ci sono i Caaf, i centri di assistenza fiscale che aiutano nella compilazione della dichiarazione dei redditi. Come “intermediari fiscali”, sono diventati società a responsabilità limitata, cioè società di capitali i cui soci di riferimento sono i sindacati e le loro articolazioni territoriali. Peccato che da un po’ i Caaf siano spesso in passivo, causa eccesso di dipendenti. Quello della Cgil del Lazio, ad esempio, ha accumulato un debito di 14 milioni e deve ricorrere a un taglio sui circa 150 lavoratori, che potrebbero andare a ingrossare le fila di quei “licenziati dalla Cgil” che stanno conducendo una vertenza contro il sindacato di Susanna Camusso.
Per sanare il rosso, una mano la potrebbe dare l’Inps, che ha deciso di abolire il servizio di ricezione gratuita dei moduli 730 che fino all’anno scorso potevano essere consegnati presso i suoi sportelli.
Questo aumenterà il giro d’affari dei Caaf e il conto che presentano allo Stato. Anche se è prevista una tariffa pagata dall’utente, il Caaf ottiene infatti un contributo pubblico per ogni pratica svolta (730, Unico, Ici): l’assegno staccato dal Welfare si aggira intorno ai 200 milioni annui. A cui si aggiungono i soldi pagati dall’Inps per la realizzazione degli Isee (l’indice di situazione economica delle famiglie), un servizio che nel 2009 ha fatto incassare ai Caaf 102 milioni.
I vertici dei Caaf, come i presidenti dei patronati, vengono nominati dalle segreterie provinciali e regionali: l’Inca-Cgil è diretto da Morena Piccinini, che prima era componente della segreteria confederale, così come lo era Antonino Sorgi, presidente dell’Inas-Cisl, mentre il presidente di Ital-Uil, Giampiero Bonifazi, fa anche parte del Cnel, grande area di parcheggio di dirigenti sindacali.

Sbarco nella finanza
Le strutture che stanno ridisegnando il sindacato di domani sono gli Enti bilaterali. Secondo la legge Biagi dovrebbero servire a regolare il mercato del lavoro, programmare attività formative, di fatto, servono ad allevare nuove leve burocratiche e mini-apparati. Il numero dei loro componenti non è mai meno di tre per parte sindacale (quanti quelli dei datori di lavoro. E questo per ogni categoria nazionale, per ogni struttura provinciale o regionale. Le categorie sono 89, i sindacati più rappresentativi sono almeno 4 o 5, le provincie oltre 120 e le regioni 20: viene fuori una schiera di qualche migliaio di funzionari. Tutti pagati da aziende e lavoratori: il contributo per finanziarli si calcola infatti sull’imponibile previdenziale del monte dei salari (in media 0,20 per cento a carico delle aziende, altrettanto a carico dei lavoratori).

Nomenklatura sanità
Da quando il Tfr alimenta la previdenza complementare, la gestione dei fondi sanitari è diventata ambitissima. Nonché inevitabilmente numerosa. Prendiamo il fondo Sanimpresa: funziona dal 2003 per gestire l’assistenza sanitaria ai dipendenti della Confcommercio di Roma insieme a Cgil, Cisl e Uil. Ebbene, il consiglio di gestione è formato da 36 persone, metà espressione delle imprese e metà dei sindacati. Come il Fonchim, fondo pensione dei chimici, che ha 2,5 miliardi di patrimonio ed è governato a un’assemblea di delegati formata da 31 rappresentanti delle imprese e 31di parte sindacale. Poi c’è il consiglio d’amministrazione (7+7) il Collegio dei Revisori (2+2) e la Consulta dei soci fondatori (9+9), con spese generali pari a 1,5 milioni di euro oltre al milione per il personale. Analogo il caso del Fondo Cometa, per i metalmeccanici, che ha un’assemblea di delegati
più grande (45+45), un cda di 6+6.

Tutti insieme appassionatamente

Infine Cgil, Cisl e Uil insieme sono tra i fondatori dell’Unipol, che ha da poco dato vita alla holding finanziaria Ugf. Dentro: assicurazioni, banche, fondi di investimento, leasing e altre attività finanziarie. Tra i 25 membri del consiglio di amministrazione della Ugf – che stacca un compenso di 50 mila euro all’anno ciascuno più 1.500 euro di gettone di presenza alle riunioni – accanto a uno della Cgil, uno della Cisl e due della Uil, ci sono amministratori che provengono dai sindacati di artigiani, commercianti e agricoltori (Cna, Confesercenti e Cia). Un curriculum per tutti dà l’idea di quanta carriera possa fare un sindacalista che entra nei nuovi ranghi manageriali, quello di Sergio Betti: carriera nella Cisl in Toscana, poi consigli degli enti bilaterali edile e agricolo, cda dell’Università di Siena, della Camera di Commercio, del patronato Inas ed oggi, oltre che nel cda di Ugf, è presidente di Marte. Che cosa è? La prima società di brokeraggio assicurativo creata direttamente da un sindacato, la Cisl. Che è già, certamente il primo sindacato: almeno per il suo senso degli affari.
(da www.ilmegafonoquotidiano.it)

Stridor di unghie sullo specchio

La signora col colbacco risponde:

Sparare sul sindacato – e in particolare sulla Cgil – pare sia diventato ormai uno sport nazionale che sembra affascinare troppi giornalisti. Ognuno è libero di scegliersi lo sport che vuole, ma riteniamo che almeno un po’ di professionalità andrebbe difesa: in questo caso (Espresso, n.18 del 5 maggio. p.130) ci imbattiamo in un articolo che si apre con un virgolettato relativo ad una mia frase che non ho mai pronunciato. Una doppia falsificazione perché prima di tutto non corrisponde al vero, secondo perché un rispettoso ascolto in numerose occasioni avrebbe permesso di scoprire che quel tipo di affermazione è spesso utilizzata dal segretario generale della Cisl.
Vorrei inoltre precisare che nessuna inquietante voce sugli iscritti a Milano è mai circolata, quanto – caso mai – notizie su una  “autorevisione” della Cisl nel contesto dell’autocertificazione dei dati alla direzione provinciale del lavoro. Evidentemente una scarsa verifica delle fonti risulta in questo caso utile a sostenere tesi, piuttosto che a raccontare fatti.
Ma è chiaro il motivo per cui si parte dal falso: perché altrimenti non sarebbe possibile sostenere quanto espresso nell’articolo e la tesi conseguente che si vuole affermare.
L’argomento trattato nell’articolo in questione sarebbe anche in teoria molto interessante, ma forse sfugge all’autore che la difesa dei diritti individuali è una risposta necessaria per tutelare lavoratori e pensionati e farlo con qualità e professionalità non è un business, quanto piuttosto l’esercizio della funzione sindacale stessa, che se si limitasse ai grandi luoghi di lavoro organizzati sarebbe solo l’espressione di una minoranza, purtroppo, del mondo del lavoro.
Vorrei inoltre segnalare all’autore, che mi pare molto desideroso di parlare della Cgil e al tempo stesso poco informato, che i singoli dirigenti della Cgil che rappresentano l’organizzazione negli enti di vigilanza come  all’Inps, e per fortuna, visto che di risorse pensionistiche si tratta, non percepiscono compensi personali. Se sivuol far polemica, si guardi perciò da altre parti.
L’autore, piuttosto, dovrebbe fare un giro tra i patronati e guardare le pratiche svolte e le tante risposte che cerchiamo di dare ai lavoratori, poi, a ragion veduta, rifletta se tutto questo viene fatto alla ricerca di soldi o come una funzione del dare risposte e organizzazione ai lavoratori. Basti dire che l’Inca (il Patronato della Cgil) annualmente cura 300.000 pratiche che producono un punteggio riconosciuto dal Ministero e oltre 1.500.000 pratiche che non hanno alcun riconoscimento se non il nostro sapere che abbiamo contribuito a tutelare diritti.
Infine l’autore dell’articolo si dovrebbe informare anche sul caso Unipol, visto che attribuisce alla Cgil scelte opposte a quelle che abbiamo fatto. Infatti, la Cgil non è più nel Consiglio di Amministrazione dal 1998, Oppure ci dica come si dovrebbe esercitare – secondo lui – una funzione di controllo della previdenza integrativa se non con assemblee, per altro elette dai lavoratori iscritti ai Fondi.
E’ indubbio che le organizzazioni confederali danno fastidio; ci fu un collega dell’autore che arrivò a scrivere che i delegati sindacali sono diventati troppi, più dei carabinieri, un costo che il Paese non può sopportare.
Per tutte queste considerazioni ci riserviamo, pertanto, di valutare anche se esistono le condizioni per la richiesta di un risarcimento per il danno di immagine subito dalla nostra organizzazione.

Susanna Camusso – Segretario Generale Cgil
(da www.cgil.it)

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