Intervento di Rino Ermini

Come preannunciato iniziamo a pubblicare alcuni degli interventi formulati al 1° Congresso di USI-AIT Educazione.



Ho insegnato quasi trent’anni nella scuola pubblica, una quindicina nella scuola media inferiore (Italiano, Storia e Educazione civica e Geografia) e altrettanti in quella superiore (Italiano e Storia).

Ho scelto io di fare questo mestiere. Non è stato un ripiego, ma un lavoro che ho fatto con passione ed entusiasmo. E’ bene precisare che non è stata una missione perché nelle missioni non ci credo.

Vi sono approdato dopo numerosi anni passati in diversi settori del privato e del pubblico: operaio saldatore in fabbrica, manovale, bracciante, assistente di stazione nelle ferrovie, infermiere. Ci tengo a dirlo perché credo che una/un docente, avanti di salire in cattedra, dovrebbe avere una seria esperienza di lavoro in altri settori. Naturalmente non come precaria/o. E’ troppo lungo spiegare questa idea, ma tale esperienza le/gli servirebbe ad essere una/un docente migliore. Per me aver lavorato altrove è stato importante per due ragioni: in primo luogo perché credo nella necessità e nella bellezza di unire nella nostra vita e nella nostra crescita lavoro manuale e lavoro intellettuale: l’uno senza l’altro sarebbero incompleti, deficitari, depotenziati, più poveri; in secondo luogo perché lavorare in fabbrica o nelle ferrovie, in un cantiere o in un ospedale, mi hanno fatto conoscere meglio il mondo e mi hanno preparato quanto e forse più dell’Università al mestiere di docente, soprattutto nei confronti dei bisogni delle studentesse e degli studenti provenienti dalle classi subalterne, che sono in genere le/i più demotivate/i, le/i più tartassate/i e quelle/i che incontrano le maggiori difficoltà.

Nel mio insegnamento ho sempre cercato, per quanto me lo consentissero gli spazi dello Stato entro cui dovevo muovermi (spazi che le lotte politiche e sindacali della categoria nonché le mie capacità “autonome” potevano contribuire ad allargare), di avvalermi di metodi mutuati dalle migliori pedagogie elaborate dal Settecento in qua, a cominciare da quella libertaria e finire a Don Lorenzo Milani. Io credo di essere riuscito a realizzare qualcosa di buono e a lavorare con le mie studentesse e con i miei studenti con metodi, contenuti dell’insegnamento e risultati che non erano esattamente quelli che avrebbero voluto lo Stato e le classi privilegiate che manovrano le leve del potere. Ad esempio, ho fatto il possibile per aiutare le giovani e i giovani con cui sono venuto in contatto a      crescere partendo dai loro bisogni, dal loro modo di essere, proponendo contenuti e metodi che ne facessero persone capaci di critica e non persone passive, cercando di essere sempre autorevole e non autoritario.

Qualcosa ho anche scritto, e spesso mi è capitato di andare in giro a parlare di pedagogia libertaria. In proposito ho sempre sostenuto che chi cerca di fondare scuole private dove praticarla, ha tutto il diritto di farlo e non sarò certo io a mettere i bastoni fra le ruote: non ne avrei motivo. Io credo però che tali scuole sarebbero possibili su vasta scala (o almeno con diffusione significativa) e avere ben altro senso, se ci fossero forti organizzazioni libertarie di lavoratrici e lavoratori capaci di fondarle, gestirle e finanziarle. Se così non può essere, come credo non sia nella fase storica da noi attraversata, le scuole libertarie fatte da poche famiglie motivate che, volendo, e potendo, le fanno per sfuggire alle magagne della scuola pubblica, rischiano di essere soltanto una nicchia marginale o una semplice testimonianza, sia pure importante.

Complementare a questa mia posizione sulla scuola privata libertaria, c’è la convinzione che sia possibile agire nella scuola pubblica. E’ anche per questo che in essa sono rimasto a lungo (non soltanto perché avevo bisogno di uno stipendio) e non ho mai rinnegato quel lavoro o cercato di uscirne. Credo, come ho accennato sopra, che vi si possa fare molto. La scuola pubblica, che nel parlare comune è scuola di Stato, ma io cercherei di approfondire il discorso per vedere come non sempre coincidano e si tratti comunque di due concetti diversi, è un ambito vasto e variegato. In essa troviamo oltre un milione di docenti, tecniche/i, amministrative/i ed ausiliarie/i, e milioni di studentesse e di studenti. Essa dovrebbe costituire un campo di intervento privilegiato per chi vuole una società diversa, e un campo di sperimentazione e lotta per docenti, studentesse e studenti e famiglie che vorrebbero, nella prospettiva di una società diversa, cominciare a cambiare anche la scuola creandone una caratterizzata dalla libertà, dal reciproco insegnamento, dall’autonomia, dalla ricerca, dall’abolizione di voti e bocciature, da un radicale ribaltamento delle metodologie autoritarie, fin qui in genere adoperate, a favore di quelle non autoritarie, dall’autorevolezza a scapito dell’autoritarismo.

Ho cercato di lavorare in questo senso e così, se potessi, vorrei continuare, anche per una ragione particolare. Perché è lì, nella scuola pubblica, che ho trovato quelle studentesse e quegli studenti, di cui parlavo poc’anzi, provenienti dalle classi più disagiate, più demotivate/i e i più bisognose/i, i più esposte/i alle contraddizioni della scuola e della società, ma anche molto spesso i più ricche/i di potenzialità. Ragazze e ragazzi che continuano a pagare il prezzo più alto di una scuola autoritaria, selettiva e di classe. Quelli di cui si occupavano Francisco Ferrer, pedagogista libertario spagnolo, o Don Milani, pedagogista toscano, rispettivamente all’inizio e alla metà del XX secolo. Quelle/i di cui invece non si occupava, suo malgrado, Alexander Neill, il fondatore e animatore della scuola libertaria di Summerhill (Inghilterra, 1924, tuttora attiva) perché, diceva, la sua scuola aveva l’unico difetto di costare troppo e quindi non potevano andarvi, purtroppo,le figlie e i figli delle/i povere/i.

Un’ultima cosa. Una/Un insegnante che voglia agire nella scuola pubblica in un determinato modo, non può dimenticare la lotta politica e sindacale. Se vuole occuparsi soltanto di pedagogia e di didattica è un’/un insegnante incompleto; lo stesso se vuole fare soltanto politica o sindacalismo. Almeno questo è il mio pensiero. Deve lavorare con le proprie studentesse e i propri studenti secondo il principio non autoritario della reciprocità, confrontarsi con le colleghe e i colleghi, anche su questioni extrascolastiche, sulla base di un reciproco rispetto, organizzare e partecipare alle lotte sindacali che siano proprie della categoria e, allo stesso tempo, questo per me è importantissimo, avere un occhio anche alle altre categorie. Uno degli errori che le lavoratrici e i lavoratori della scuola hanno spesso fatto è stato quello di guardare con distacco le altre categorie, come se esse fossero di un’altra “razza”, come se stessero qualche gradino più in alto degli altri. Per quanto mi riguarda, nei trent’anni del mio insegnamento, ho cercato di mettere in pratica questi criteri e ho attraversato tutte le lotte che nella categoria sono state fatte, a partire dal CNLS, Coordinamento Nazionale Lavoratori della Scuola, passando per i Cobas, finendo con la CUB scuola che nel mio piccolo ho contribuito a fondare ma dalla quale sono uscito ormai da qualche anno.

Per quanto riguarda l’accenno che è stato fatto all’opportunità di creare materiali (specie di nostri libri di testo, o dispense) da utilizzare nell’insegnamento, io dico che può anche andare bene, che tutto, volendo e potendo, è attuabile. Ma secondo me non è tanto questione di materiali, quanto di utilizzo di contenuti e metodi che si discostino da quelli usualmente adoperati nel mondo della scuola. Conta insomma ciò che faccio e dico e come lo faccio e dico. E per quanto riguarda il materiale, e mi riferisco soprattutto ai libri di testo, direi che ve ne sono molti che sono decisamente passabili, in tutte le materie, e che sta alla/al docente adoperarli nel modo opportuno, cominciando dal farli essere ciò che sono, uno strumento, e non feticcio da sacralizzare.

Infine, direi che se qui oggi nasce il sindacato “USI Educazione”, e naturalmente io gli auguro di nascere e godere di ottima salute, si potrebbe prendere in considerazione l’idea di un bollettino di collegamento, di confronto e dibattito dove fra le altre cose potrebbero trovare posto anche l’elaborazione e il dibattito su materiali didattici, teoria ed altro. E se non è possibile un bollettino, per ragioni di costi, ecc., vedere se allo scopo è possibile ricavare uno spazio in “Lotta di classe”, oppure ancora questo spazio crearlo in rete.

 Rino Ermini

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