Fincantieri, una lotta di tutti

I cantieri navali a Sestri Ponente esistono dal 1815, ben prima della nascita della Fiat e della grande industria italiana. Esistono da ottant’anni prima che il primo Agnelli (Giovanni senior) iniziasse a occuparsi di biciclette. Da quando il maestro d’ascia Agostino Briasco invece costruiva velieri che avrebbero solcato l’oceano.
Questo puro dato storico sta solo a esemplificare le profonde radici che i cantieri di Sestri hanno nella storia industriale di Genova e l’altrettanto profondo legame con la classe operaia e gli abitanti della cittadina del ponente. Generazioni di operai (e le loro famiglie) hanno dato fatica e sangue agli imprenditori che in quasi 200 anni hanno operato nella cantieristica sestrese: dai Cadenaccio, ai Westerman, dagli Odero agli Ansaldo, per arrivare alla gestione IRI degli anni ’30 e immediato dopoguerra e a quella ultima di Fincantieri. Radici che affondano anche nella storia delle lotte di classe genovesi: dalle lotte del biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche – sotto la guida della Camera del Lavoro sindacalista di Sestri – a quelle degli anni ’50 contro la ristrutturazione post-bellica, a quelle degli anni ’70 per riconquistare dignità e potere in fabbrica.
Oggi si vuole chiudere lo stabilimento di Sestri (così come quello di Castellamare di Stabia e ridimensionare pesantemente quello di Riva Trigoso). Migliaia di lavoratori a spasso – compresi quelli delle imprese in appalto, in massima parte stranieri e l’indotto – nella continua devastazione del tessuto produttivo ligure come nazionale.
Le motivazioni sono sempre quelle: la crisi del settore, la razionalizzazione della cantieristica a livello nazionale, il taglio dei rami secchi e via discorrendo.
Niente di nuovo, così come non c’è niente di nuovo nel modo faccendiero e clientelare con cui si sono distribuiti i tagli: si colpiscono Liguria e Campania e si salvano i cantieri del Nordest dove comanda la Lega.
Niente di nuovo infine nel gioco delle parti e dei numeri: 2.500 esuberi e due cantieri da chiudere buttano sul piatto i vertici aziendali; non se ne parla, insorgono politici locali e sindacati; facciamo 1.500 e Sestri si chiude solo per un po’; si può ragionare dicono i paladini dei lavoratori. E dopo il solito tira e molla – nella migliore delle ipotesi – magari arriverà un accordo che impegnerà i lavoratori a lavorare di più (Marchionne docet!), guadagnare di meno, mandandone un certo numero in cassa integrazione o mobilità e direttamente in mezzo alla strada quelli delle imprese, tanto non sono italiani… “Abbiamo vinto compagni”, proclameranno allora i capi della “battagliera” Fiom.
Nemmeno nuova – ma è quello che si salva in tutta questa drammatica e triste vicenda – è la capacità di lotta dei lavoratori che sono scesi compattamente in sciopero e in piazza a Genova, come a Castellamare, come a Riva Trigoso e insieme alla popolazione manifestano chiaramente e con determinatezza la volontà di resistere alla chiusura e ai tagli. Lotte condotte anche con quella durezza che la situazione richiede e che solo la rituale ipocrisia perbenista di mass-media, politicanti e “anime belle” di ogni sorta può ritenere eccessiva ed estremista. Ben altro che le tradizionali sfilate dietro i sindaci e con il codazzo di autorità e magari parroci serve per fermare l’attacco dei padroni contro i lavoratori, i loro residuali diritti e il loro posto di lavoro. Serve determinazione, servono anche forme di lotta al di fuori di quelle “regole” che i padroni hanno stabilito e che rendono sempre più restrittive, serve soprattutto la consapevolezza della necessità dell’unità e solidarietà degli sfruttati, il capire che ogni licenziamento, che ogni chiusura, che ogni peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro sono affare di tutti e che tutti insieme bisogna rispondere, giorno dopo giorno.
USI-AIT Genova

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