A malo bonum

Come si è venuto a sapere dalla lettura dei giornali dei giorni passati, pure la CGIL (per bocca del suo segretario generale Epifani) è arrivata a convenire sulla nuova struttura della contrattazione collettiva, raggiungendo così le altre organizzazioni del sindacalismo di Stato, che hanno già da tempo firmato l’accordo per ridefinire appunto i livelli di contrattazione.
Si tratta, come è noto, di una maggiore valorizzazione della contrattazione decentrata, sul posto di lavoro e/o sui territori (non è ancora chiaro il “dettaglio”), che si aggiungerebbe in modo sistematico a quella nazionale di categoria.
Non che le cose siano oggi radicalmente diverse: almeno in una certa quantità (non enorme) di imprese private ed in vari settori del pubblico impiego esiste già una contrattazione di secondo livello.
Ma la ristrutturazione, cui ora la CGIL darebbe il suo assenso (pur non preannunciando la sua firma in coda alle altre già poste dagli altri sindacati amici-nemici), prevede uno spostamento di rilevanza verso la contrattazione decentrata, legata alla produttività, addirittura con la possibilità di derogare al contratto nazionale di categoria (anche in peius, altrimenti non ci sarebbe stata ragione di una tale statuizione a livello interconfederale e con la benedizione del governo in carica).
Certo la CGIL fa i suoi distinguo rispetto a quanto affermato dagli altri sindacati di Stato: che il secondo livello di contrattazione dovrebbe allora venire attivato davvero dappertutto (davvero in tutti i posti/territori di lavoro), che la questione del collegamento del salario con la produttività dell’impresa, o dei reparti o va sapere di chi o di che cosa, è davvero elemento delicato e da ben definire, eccetera eccetera.
Ma la sostanza non cambia: CGIL ha raggiunto gli altri e ha abbandonato la trincea della difesa a tutti i costi del contratto nazionale.
Oddio: il contratto nazionale, l’ultima trincea della lotta di classe. Oddio: dove è finito? Svenduto e spezzettato e frammentato e frullato pure dal gran sindacato: il più grande di tutti, quello che davvero si preoccupa dei lavoratori e dei più deboli, i quali dovrebbero trarre un vantaggio notevole dall’esistenza di contratti nazionali (come abbiamo visto, fino ad oggi è stato evidentemente così, ché i contratti nazionali hanno davvero difeso potere d’acquisto e garantito tutele per tutti i deboli di tutte le piccole imprese e per tutti i deboli di tutte le grandi imprese).
Ed ora chissà che cosa accadrà?
Certo c’è il rischio delle deroghe ai contratti nazionali, il rischio di affidare un’eccessiva porzione di salario alla contrattazione decentrata (con la conseguenza di eccessive disparità salariali a parità di mansioni nei diversi posti di lavoro: ciò a causa di squilibri nei rapporti di forza che vi possono essere nelle diverse unità produttive), il rischio di differenziazioni normative rilevanti nei diversi territori del nostro paese.
Eppure.
Facciamo un piccolo esperimento.
Prendiamo sul serio il nostro credo federalista (libertario). Prendiamo sul serio (almeno una volta) il sogno dell’autoorganizzazione e dell’autogestione (futura, dopo la rivoluzione sociale, che sempre tarda e che sempre attendiamo).
E avanziamo una proposta spiazzante per i sindacati di Stato (tutti) e per i governi (tutti) e per i padroni (tutti).
Non attardiamoci in una difesa di retroguardia del contratto nazionale di lavoro.
Facciamo un doppio salto mortale in avanti, sperando di ricadere in piedi, e chiediamo l’abolizione totale del contratto nazionale di lavoro.
Siamo sul serio federalisti ed autoorganizzativisti (mi si passi il brutto neologismo): si contratti “tutto” sul posto di lavoro/territorio. E contrattino i delegati degli stessi lavoratori: delegati eletti dai lavoratori e da essi medesimi revocabili in qualunque momento e (tanto per esagerare) vincolati pure da mandato imperativo delle assemblee dei lavoratori nelle aziende e negli uffici.
Tutto in periferia e niente al centro.
O meglio: al centro una sola cosa. Finché esisterà lo Stato (chissà per quanto ancora…, in attesa della rivoluzione sociale e dell’autogestione globale): una bella legge sul salario minimo garantito uguale per tutti e differenziato solo in base a parametri da definire nei dettagli (per esempio i carichi familiari).
A partire da questo salario minimo garantito, ed imposto per legge, si procede con i giochi degli accordi contrattuali iperfederali.
Così salviamo capra e cavoli: una tutela del potere d’acquisto (di sopravvivenza) per tutti i lavoratori di tutto il paese ed un massimo decentramento di impegni e di responsabilità.
I lavoratori potrebbero prendere direttamente in mano il loro destino sul loro posto di lavoro/territorio ed estromettere la mediazione delle burocrazie sindacali. A meno che i professionisti del sindacalismo di Stato ed alternativo non riescano anch’essi in un doppio (anzi triplo) salto mortale, costituendosi in innumerevoli sedi decentrate (che già ci sono, invero) atte alla consulenza tecnica per le contrattazioni d’azienda e territoriali.
Certo il rischio è grosso. Il rischio che i lavoratori più deboli possano perdere salario: per cui potrebbe essere dato solo a chi ha già, mentre a chi ha poco verrebbe tolto pure il poco che possedeva. Ma anche le opportunità sono enormi: le lotte partecipate davvero, che vengono condotte in spirito unitario dai lavoratori direttamente e su obiettivi concreti ben definiti, spesso si rivelano vincenti e più efficaci di mobilitazioni generaliste, che spesso sono solo lo strumento di rafforzamento di strutture organizzative, che poco hanno di differente dalla lobbies economico-corporative di tradizione anglosassone.
Paradossalmente una ridefinizione nel senso qui proposto delle modalità di contrattazione polverizzata potrebbe riuscire gradita pure alle grandi (e miopi) organizzazioni sindacali moderniste, le quali si sgraverebbero delle incombenze fastidiose della contrattazione collettiva (così old fashion) per concentrarsi sul nuovo core business a loro certamente più congeniale: vertenze individuali a pagamento, patronati, CAF, consulenze varie, benefit e convenzioni con ditte erogatrici di servizi. Oppure, al livello centrale, potrebbero concentrarsi nell’attività di lobbying a contatto diretto con i governi nazionale e regionali: ciò per la gestione-affossamento-salvataggio-riconversione del nuovo welfare semiprivatizzato.
E nel frattempo la talpa dell’autoorganizzazione sul posto di lavoro potrebbe scavare le sue piccole, ed apparentemente inutili, gallerie, che magari, un giorno forse lontano (siamo realisti e gradualisti), faranno crollare il terreno sovrastante su cui poggiano le fondamenta dell’edificio delle relazioni industriali  create ed implementate dallo Stato democratico neocorporativo.
Sta ai lavoratori, ed alla loro volontà d’agire (o di subire), decidere se prendere in mano il loro destino (con tutti i rischi conseguenti) o se affidarsi all’assistenza amorevole di organismi (i sindacati di Stato ed anche alcuni di quelli cosiddetti di base), che vengono attualmente vissuti dai più come parte integrante della burocrazia pubblica e del sistema delle imprese: tutto e tutti vincolati in un abbraccio ormai talmente stretto da non permettere sempre di distinguere le membra degli uni da quelle degli altri.

30 agosto 2009.

Dom Argirpulo di Zab

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