LETTERA A DEGLI SFRUTTATI

LETTERA A DEGLI SFRUTTATI

Cari fratelli,
siete riusciti a far parlare di voi. Ce l’avete fatta, finalmente. Adesso questo Paese ha saputo che i vostri piedi calpestavano la terra bagnata dal sudore della vostra fatica. 
Chissà se mai abbiamo attraversato la stessa città, bevuto un caffè nello stesso bar, se le nostre spalle si sono accidentalmente toccate e magari ci siamo chiesti furtivamente “scusa”. 

Nemmeno la morte però vi ha ridato la dignità di esseri umani. Si parla di voi chiamandovi solo migranti. Come se l’essere migranti dipendesse dal colore della pelle, e non dalla voglia o dalla necessità di lasciare questa o quella terra per andare altrove. 
Nemmeno ora vi si riconosce la dignità di esseri umani. Quella stessa dignità che vi è stata rubata quando la vostra schiena si piegava sui campi; quella stessa dignità rubata quando la vostra fronte lambiva la durezza della terra bruciata dal sole; quella stessa dignità rubata quando le vostre mani diventavano dure come pietre per i calli; quando il dolore della fatica vi faceva addormentare presto la sera per poi affrontare altre tredici o forse quattordici ore di lavoro. 

Fratelli, vi chiamo così perché vi riconosco come tali. Perché eravate innanzitutto esseri umani come me, perché condividevamo lo stesso Pianeta nonostante quegli immaginari e violenti confini; vi chiamo così perché sono miei fratelli e mie sorelle tutti e tutte gli sfruttati del mondo, ovunque essi siano, senza badare se camminano su due o quattro gambe, se sono neri o bianchi, gialli, verdi, rossi, blu o a pois; se hanno la coda o le pinne; se volano o nuotano; se vivono sugli alberi o poco più su delle loro radici; se la loro casa è su uno scoglio o su una montagna. 
Nemmeno la morte vi ha ridato la dignità di raccontare le vostre storie personali o di sapere i vostri nomi. 
“Sono morti dodici migranti” si sente dire, dodici in meno. Prima come adesso vi vogliono come semplici numeri. No, sono morti dodici esseri umani, dodici sfruttati, dodici fratelli. 

La vostra dignità però continuerà a vivere nella lotta di chi resta e non si arrende, di chi ancora crede che vale la pena rischiare la propria libertà per quella di tutti e tutte. Di chi ancora crede che “nostra patria è il mondo intero”.


Nicholas Tomeo
USI-Vasto

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