IL SISTEMA “LEGALE” DI SFRUTTAMENTO e DISCRIMINAZIONE DELLA MANODOPERA STRANIERA
Chi arriva in Italia dopo essere fuggito dal proprio paese d’origine e spera di trovarvi migliori condizioni di vita attraverso il reperimento di un’occupazione lavorativa, si trova a dover affrontare un sistema al contempo vorace ed escludente, pronto a catapultare il migrante nel mercato dello sfruttamento del lavoro tenendolo sotto il costante ricatto di rispedirlo al suo paese d’origine.
Certamente il ricatto di perdere ciò che col proprio sudore si è ottenuto è una condizione comune a tutti i lavoratori, quale che sia l’origine nazionale, ma ciò che rende i lavoratori stranieri appetibili al capitale è la condizione di maggiore sfruttamento, tollerata o imposta dal complesso di leggi, usi e consuetudini vigenti oggi in Italia.
Conoscere quali sono in concreto alcuni di questi meccanismi può essere perciò utile non solo per individuare gli spazi d’azione per il loro superamento ma anche, si spera, per scardinare quel sentimento, purtroppo diffuso anche fra i lavoratori italiani, che individua nella manodopera straniera una minaccia al reperimento o al mantenimento dell’occupazione (“ci portano via il lavoro”), quando non anche gli attribuisce la responsabilità del peggioramento delle condizioni di lavoro (“Sti stranieri fanno turni massacranti” “pur di lavorare si fanno sottopagare”).
Lavoro nero e fantasma: la condizione del lavoratore clandestino
La prima gravissima forma di discriminazione attuata dal nostro ordinamento è costituita dal complesso di regole che vietano allo straniero di regolarizzare la sua posizione di soggiorno in Italia col reperimento di un’occupazione lavorativa: questo meccanismo è infatti solo eccezionalmente consentito attraverso le c.d. “sanatorie”, mentre in via ordinaria il sistema prevede che, ancora prima dell’ingresso del lavoratore straniero in Italia, il datore di lavoro che vuole assumerlo debba essere autorizzato dallo Stato a farlo e che questi debba poi spedire la relativa autorizzazione nel paese d’origine del lavoratore straniero, il quale si recherà nella più vicina ambasciata italiana per ritirare il visito d’ingresso per lavoro e così entrare regolarmente in Italia; una volta giunto in Italia, il lavoratore straniero insieme al proprio datore di lavoro dovranno recarsi presso l’apposito sportello della Prefettura per firmare il contratto di soggiorno per lavoro subordinato, senza il quale il lavoratore straniero non potrà ottenere il relativo permesso di soggiorno.
Già di per sé queste regole lasciano facilmente intuire la condizione di dipendenza imposta al lavoratore straniero, essendo l’ottenimento del permesso di soggiorno per lavoro condizionato non solo al reperimento di un contratto di lavoro ma a una serie di altri adempimenti rimessi alla esclusiva volontà del datore di lavoro, oltre che alla casualità di arrivare prima di altri, in quanto le autorizzazioni a lavoro vengono rilasciate una sola volta all’anno e in numero contingentato. Può perciò accadere che anche quando il datore di lavoro ha tempestivamente presentato la richiesta, se la veda respinta con la motivazione “quota non più disponibile” e dovrà aspettare le quote dell’anno successivo per avviare una nuova pratica; per il lavoratore straniero questo significa: un altro anno di lavoro nero e senza permesso di soggiorno.
Ma ciò che è ancora più grave, è l’ipocrisia dell’intero meccanismo sopra descritto, perchè si basa su un presupposto risaputamente falso, e cioè che al momento della richiesta di autorizzazione il cittadino straniero si trovi ancora nel paese d’origine. In realtà, tutti sanno che quando il datore di lavoro chiede di essere autorizzato ad assumere un cittadino straniero, questi sta già lavorando in nero presso di lui: e che si tratti di un fatto notorio anche ai nostri governanti è confermato proprio dalle c.d. “leggi di sanatoria” attraverso cui infatti lo stato italiano consente di bypassare le regole ordinarie, prevedendo una sorta di condono per i datori di lavoro che possono una tantum regolarizzare tutta la manodopera clandestina presente in Italia.
In conclusione, dunque, si tratta di un sistema che costringe il lavoratore clandestino a restare per un periodo indefinito – fino a quando cioè il datore di lavoro non si decida e/o non possa avviare la pratica sopra descritta- in una condizione di doppia ricattabilità, non solo perché lavora in nero e col rischio di essere espulso dall’Italia (mentre il datore di lavoro rischia in questo caso solo una sanzione penale che può essere convertita in sanzione pecuniaria) ma anche perché, essendo per la legge italiana una sorta di lavoratore fantasma, la stessa tutela giudiziaria gli è in gran parte preclusa: può così ad esempio capitare che il datore si rifiuti di avviare la richiesta di autorizzazione oppure decida di licenziarlo e che egli non possa ottenere per via giudiziale il diritto al posto di lavoro; oppure può succedere che, nonostante lo svolgimento di lecita attività lavorativa, egli venga espulso dall’Italia, non essendo questa fatto, come si è visto, un motivo sufficiente ad evitare il provvedimento di espulsione, con l’ulteriore grave conseguenza che in caso di immediato allontanamento coattivo del migrante dall’Italia (la legge Bossi-Fini ha infatti previsto che anche in caso di prima espulsione il cittadino straniero possa essere rispedito coattivamente nel proprio paese d’origine), egli non possa nei fatti azionare la tutela giudiziaria.
Scadenza del permesso di soggiorno, licenziamento, disoccupazione: la condizione del lavoratore straniero regolarmente soggiornante
Anche quando il lavoratore straniero riesce finalmente ad ottenere il permesso di soggiorno, egli continua ad incontrare difficoltà sul lavoro ogni volta che debba rinnovare il permesso, nonostante la legge sancisca per il lavoratore straniero regolare il principio di piena parità di trattamento rispetto al lavoratore italiano.
Si tratta non solo difficoltà di ordine pratico, comunque rilevanti – si pensi ad esempio ai conflitti che possono sorgere quando il lavoratore debba chiedere al padrone permessi per recarsi in Questura per la pratica di rinnovo del permesso di soggiorno; ma, anche in questo caso, le difficoltà sono rappresentate da regole che anziché assicurare una sostanziale parità del lavoratore straniero ne aumentano le diversità trattamentali.
La procedura per il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro prevede che il lavoratore straniero avvii la pratica per il rinnovo entro 60 gg. dalla scadenza del permesso e che debba dimostrare di avere in corso in quel momento un regolare rapporto di lavoro. Se questo termine non viene rispettato, egli potrà essere espulso.
Per comprendere la diversità di trattamento riservata (anche) al lavoratore straniero regolarmente soggiornante in Italia, occorre allora chiedersi cosa succede se nel frangente compreso tra la scadenza del permesso di soggiorno e l’avvio della procedura di rinnovo egli perde il lavoro.
La legge prevede sì che in questi casi il migrante possa ottenere un permesso per attesa occupazione, ma è una garanzia molto limitata perché il permesso per attesa occupazione ha una durata massima di 6 mesi e non è rinnovabile: ciò significa che quando il lavoratore migrante perde il posto di lavoro contestualmente alla scadenza del permesso di soggiorno egli non possa restare disoccupato per un periodo superiore a sei mesi, se non a rischio di essere espulso dall’Italia.
Per altro, anche quando il lavoratore venga illegittimamente licenziato la tutela giudiziaria potrebbe essere di più difficile azionabilità. Non sempre infatti i tempi di una causa di licenziamento coincidono con quelli di durata massima del permesso per attesa occupazione: ciò rappresenta un rischio per il lavoratore migrante perché la sentenza di reintegro e il conseguente diritto a proseguire il soggiorno in Italia potrebbero intervenire quando oramai siano scaduti i tempi per il rinnovo del suo permesso di soggiorno o, ancora peggio, quando egli sia stato già destinatario di un’espulsione.
Razzismo di Stato: persecuzione e diritti negati del lavoratore straniero
Tutto ciò, è bene chiarirlo, non significa che non vi siano margini per la tutela legale del lavoratore migrante ma spesso, oltre a rivolgersi al magistrato del lavoro, occorrerà aprire un contenzioso con la pubblica amministrazione che non di rado si traduce in ulteriori azioni giudiziarie davanti al giudice amministrativo, molto più lunghe e costose del processo del lavoro, in quanto gli organi di polizia competenti per i permessi di soggiorno agiscono di frequente in maniera estremamente arbitraria, frapponendo ostacoli di ogni genere e preferendo nel dubbio negare il permesso di soggiorno anziché prendere in considerazioni le specificità dei casi sottoposti alla loro attenzione.
Si tratta di aspetti del rapporto di lavoro che a mio avviso debbono essere conosciuti non solo dal lavoratore migrante ma anche dai colleghi di lavoro italiani e da chi fra questi si rende protagonista diretto di attività sindacale sul luogo di lavoro.
Conoscere i meccanismi su cui si basa lo sfruttamento è infatti sempre un buon passo per il loro superamento: significa prendere coscienza che un sistema che si dichiara pronto a combattere l’immigrazione clandestina (in base alle recenti disposizioni legislative note come “pacchetto sicurezza” chi entra clandestinamente in Italia è perseguibile a livello penale oppure è condannato ad una pena maggiore se commette un reato) e allo stesso tempo mantiene i lavoratori migranti in una condizione di clandestinità, potenziale o effettiva che sia, non è meno razzista di chi impone la propria superiorità attraverso la persecuzione legale dell’altro.
Melissa Mariani – avvocata del lavoro Milano