IL LATO OSCURO DELLA COOPERAZIONE

L’origine delle contraddizioni, e dello sfruttamento che da esse si genera, presenti nel mondo della cooperazione odierna va ricercata nella struttura giuridica, politica ed economica che 150 anni fa (e le successive modificazioni) il mutualismo si diede: senza una previa contestualizzazione storica il rischio sarebbe quello di affrontare un dibattito oltre che monco anche ideologicamente fuorviato. La cooperazione e il mutualismo nacquero, infatti, a metà del secolo scorso come una delle risposte di solidarietà del movimento operaio e proletario al nuovo processo di industrializzazione. La cooperazione ed il mutualismo scaturirono da due importanti correnti del pensiero socialista: quello cosiddetto utopistico e quello riformistico. In un secondo tempo, ormai alla fine dell’800, anche la corrente del cattolicesimo popolare intuì le potenzialità integrative ed emancipative, cristianamente intese, del movimento cooperativistico. La prima cooperativa riconosciuta come tale nacque a Rochdale, vicino a Liverpool, nel 1844, fondata dalla società dei “Probi Pionieri”. Se leggiamo lo statuto della società cooperativa dei Probi Pionieri ci rendiamo immediatamente conto che la finalità esplicita e diretta era quella di costituire una società di consumo, ma che l’ipotesi sottostante era quella di costruire un modello relazionale di tipo egualitario. Il consumo associato avrebbe permesso di acquistare beni a prezzi inferiori e con il restante denaro ricavato si sarebbero costruite una scuola pubblica e gratuita, un ospedale, migliorate le condizioni di lavoro nei campi e così via. Se da un lato il modello capitalistico nascente offriva miseria e sfruttamento, la cooperazione diveniva una risposta organizzata esterna al capitale con tre finalità di fondo:
1.    Contrattualistica: vendere la forza lavoro associata più cara, comprare i beni di prima necessità e dividere i mezzi di produzione e con il ricavato migliorare le condizioni lavorative e di vita degli associati.

2.    Societaria: realizzare un modello di società alternativo a quello capitalistico, attraverso forme graduali di occupazione degli spazi; una società che si contrappone ad un’altra che non ha ancora sviluppato appieno le sue potenzialità e il suo “totalitarismo”.
3.    Integrazionista: la cooperazione come strumento di integrazione politica delle masse proletarie all’interno del sistema dato; la cooperazione come strumento che anticipa “diritti” che un giorno lo stato dovrà riconoscere: cassa mutua, assicurazioni, pensioni, sanità pubblica, scuola pubblica…
Se le finalità esterne, a grandi linee, furono quelle sopracitate, le finalità interne della cooperazione non erano dissimili dal punto di vista dei principi:
1.    Mutualità: la mutualità come principio interno e non esterno agli associati. La mutualità esterna era una conseguenza di ciò che si proponeva come modello produttivo e relazionale tra i cooperatori.
2.    Democrazia economica: tutti dovevano poter prendere parte alle decisioni comuni. Principio dell’eleggibilità generale, della revoca delle cariche, della rotazione. Una persona, un voto, ciò indipendentemente dalle quote (una volta erano soprattutto in natura e strumenti di lavoro) versate.
3.    Non distribuzione degli utili, o meglio distribuzione non economica, come le società di profitto, ma indiretta: miglioramento delle condizioni di vita degli associati. Di qui il termine anglosassone “no profit”. Al concetto di non distribuzione degli utili si affiancava anche il concetto della non massimizzazione degli stessi se ciò fosse andato a scapito della mutualità e dei benefici interni tra i soci: orari di lavoro defatiganti, competitività con altre società cooperative ecc.
4.    “Porta aperta”: a tutti veniva concessa la possibilità di accedere alla società cooperativa e mutualistica purché si rispettassero i principi statutari comuni.
5.    La società cooperativa, seppur costituita dai soci, ad essi non apparteneva come proprietà privata.
6.    Questi principi “storici” della cooperazione permangono nell’attuale legislazione e vedremo poi come possano essere utilizzati per ragioni esattamente contrarie a quelle per cui sono nati.
Tornando al breve excursus storico, la cooperazione ebbe un impulso trasversale tra le varie correnti del movimento operaio, da quello repubblicano, a quello cattolico per finire con le sinistre più o meno radicali e gli anarchici. Ogni componente, e sarebbe troppo lungo dilungarsi, vedeva in essa strumenti e prospettive diverse per la liberazione di classe. C’è da dire, però, che per sua natura, essenzialmente gradualistica e concretamente realizzabile, la cooperazione divenne uno strumento privilegiato dei movimenti riformistici: non fu un caso che il noto e più importante statista italiano dei primi ‘900, Giolitti, promosse e sostenne in varia forma attraverso la legislazione corrente, il movimento cooperativo. A fronte di una classe operaia industrializzata ed una classe contadina abbruttita da secoli di sfruttamento, sempre più combattive, la cooperazione divenne uno sbocco naturale di cooptazione e di assimilazione del proletariato entro il quadro capitalistico allora esistente, tanto più che sopperiva a carenze organiche dello stato nazionale. La risposte che in quel momento l’altra parte del movimento operaio stava dando erano tanto classiste quanto frontali nello scontro con il capitale: fu il periodo del sindacalismo rivoluzionario e dello sciopero generale insurrezionalista. Le correnti massimaliste del partito socialista e l’anarchismo organizzato acquisirono un peso specifico numerico molto rilevante e temibile per l’ordine costituito. Sappiamo bene come quel glorioso periodo si infranse contro il muro del nazionalismo e della prima guerra mondiale. Durante il fascismo la cooperazione non scomparve del tutto, ma rimasero ovviamente soltanto quelle strutture gradite al regime, le altre erano state letteralmente spazzate via, all’interno di un Ente nazionale fascista della cooperazione. Con la resistenza e la successiva ricostruzione post-bellica, la cooperazione riprese i fili interrotti caratterizzandosi per la stretta connessione con i tre partiti riformisti e popolari più grandi: Dc. Pci e Psiup. Il riconoscimento della cooperazione avvenne attraverso due atti formali di notevole importanza: l’articolo 45 della Costituzione e il Dlcps (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato) 1577 del 14 dicembre 1947. Anche il codice di procedura civile diede ordinamento alla società cooperativa con gli articoli 2511 e seguenti. Sebbene la cooperazione sia stata un fenomeno a diffusione nazionale, da sempre, in Italia, ha avuto come epicentri tre regioni in particolare, ovvero l’Emilia Romagna, la Toscana ed il Veneto: se guardiamo la distribuzione geopolitica e la consistenza politico sociale delle regioni sopracitate la cosa non dovrebbe stupirci più di tanto. La legislazione repubblicana riprese i principi costitutivi della cooperazione sopracitati, con particolare interesse a rimarcare l’anomalia della figura giuridica del lavoratore associato nei confronti del lavoratore subordinato e dipendente. Il sindacalismo in genere non si è mai occupato, se non per l’attenzione suscitata nel dibattito corrente della questione cooperativistica, considerandola sempre come costola del proprio sistema e interna ad un progetto di società futuribile in cui essa avrebbe avuto piena cittadinanza. Sia che si trattasse della Cgil che della Cisl o dell’Uil, con distinguo non irrilevanti, la cooperazione rimaneva uno strumento di emancipazione di classe. La condizione del socio toglieva poi, al diritto giuslavoristico, ogni pretesa di difesa paragonabile a quella del lavoratore salariato. Solo negli ultimi anni, a fronte del crescente processo di esternalizzazione sia del pubblico, nel costante ridimensionamento del welfare da un lato e un suo allargamento a bisogni inespressi dall’altro, attraverso, ma non solo, la cooperazione sociale, sia del privato industriale e di servizi, il sindacalismo in genere ha cominciato ad interessarsi a questa vecchissima figura lavorativa. Le ragioni sono abbastanza ovvie: il socio lavoratore è attualmente uno dei pezzi della crescente precarizzazione e dello sfruttamento del mondo salariato grazie proprio a quegli strumenti legislativi che ne avevano costituito una forma di lavoratore sostanzialmente “privilegiato”. Occorre ora andare ad analizzare nel merito la figura del socio lavoratore.
Il socio – lavoratore
Quando andiamo ad approfondire la figura del socio lavoratore dobbiamo sapere che lo facciamo da due punti di vista tra loro conflittuali: il socio in quanto corresponsabile dell’amministrazione giuridica, economica e fiscale della cooperativa e il lavoratore in quanto erogatore di prestazione lavorativa in cambio di denaro.
Il socio
Premetto che si può essere soci di una o più società cooperative senza necessariamente lavorarvi dentro, ma partecipando esclusivamente al perseguimento dell’oggetto sociale attraverso l’amministrazione corrente e straordinaria della società.
Il socio in quanto tale gode di alcuni diritti e doveri che sono così definiti dal codice civile:
Diritti.
1.    Farsi consegnare lo Statuto e il Regolamento interno della cooperativa.
2.    Essere informati sull’ora, data e luogo in cui si terrà l’Assemblea dei soci
3.    Essere informati sugli argomenti della discussione assembleare e contribuire a definirli.
4.    Per quei soci che rappresentino 1/5 dei voti, richiedere la convocazione dell’Assemblea dei soci
5.    Ottenere il rinvio dell’assemblea nel caso in cui venga a mancare l’informazione sull’ordine del giorno
6.    Partecipare alla discussione nelle assemblee
7.    Votare nelle assemblee. Ogni socio ha un voto, qualunque sia il valore della quota o delle azioni (art.2532 del c.c.)
8.    Il socio può farsi rappresentare nelle assemblee da un altro socio. Ciascun socio non può rappresentare più di cinque soci.
9.    Concorrere alla formazione degli organi sociali: eleggere ed essere letti nel Consiglio di amministrazione.
10.    Esaminare il libro delle adunanze delle assemblee, delle deliberazioni assunte e del libro soci.
11.    Impugnare le deliberazioni assembleari contrarie alla legge ed allo statuto.
12.    Partecipare all’assemblea dei soci che approva il bilancio d’esercizio.
13.    Prendere visione del bilancio d’esercizio con le allegate relazioni del C.dA. (Consiglio di Amministrazione) e del Collegio Sindacale. Il bilancio d’esercizio deve restare depositato nella sede della cooperativa durante i 15 giorni che precedono l’Assemblea dei soci.
14.    Godere dei servizi della cooperativa prodotti nell’esercizio dell’impresa.
15.    Percepire gli utili d’esercizio distribuiti, nella misura stabilita dalla legge.
Doveri
1.    Effettuare il conferimento in denaro o in natura della quota del capitale sottoscritta (quota sociale)
2.    Effettuare prestazioni accessorie stabilite dallo statuto
3.    In caso del socio lavoratore, prestare la propria attività lavorativa in rapporto all’oggetto sociale della cooperativa.
4.    Attenersi alle decisioni adottate dalla maggioranza dell’Assemblea, anche per i soci dissenzienti.
5.    Conformarsi alle disposizioni impartite dagli amministratori.
6.    Rispondere, limitatamente o illimitatamente (in via sussidiaria) in caso di liquidazione coatta amministrativa o di fallimento.
7.    Divieto di rivelazione di segreti e divieto di concorrenza.
8.    Per i nuovi soci rispondere anche per le obbligazioni già contratte dalla società.
9.    Per i soci usciti, o per gli eredi, rispondere delle obbligazioni assunte dalla società sino al giorno dello scioglimento del rapporto e per due anni dallo scioglimento.
Le caratteristiche formali che la legge attribuisce ai soci di cooperativa coprono due istanze gestionali che sono allo stesso tempo politiche:
1.    Attribuire poteri atti ad una gestione politico amministrativa funzionale al mercato capitalistico. Sarebbe strano fosse altrimenti. Ma occorre ribadire che la società cooperativa non si muove al di fuori del sistema capitalistico, ma entro e con i suoi vincoli e le sue regole.
2.    Attribuire i poteri in conformità all’anomalia storica per la quale la cooperazione era nata: è il caso dell’attribuzione di un voto ad ogni persona, indipendentemente dalle quote possedute, della 2democrazia economica” non solo come accesso al voto garantito in maniera eguale a tutti indipendentemente dal ruolo o dalla mansione svolta, ma anche come necessità di informare e di essere informati per poter decidere e così via.
Siccome non siamo sostenitori del welfare delle opportunità, sappiamo benissimo che la lettura di un bilancio, finalizzata all’approvazione, richiede che si sia sufficientemente formati per poterla affrontare, altrimenti si potrebbe, come spesso accade, approvare cose di cui non ne si ha la minima ragione. In fondo è il passaggio “naturale” tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Ma, senza perderci troppo in disquisizioni “raffinate”, i poteri formali di un socio, se realmente utilizzati, non sono di poco conto (sempre nella compatibilità del sistema).
Ovvero la legge non dice alcunché sul merito delle decisioni da prendere: nulla vieta, infatti, che, vista la disastrosa gestione amministrativa, alcuni soci “cospiratori” (almeno 1/5 del totale) decidano di convocare un’assemblea straordinaria in cui venga deliberato di mandare a casa presidente e compagni di baldoria. Sappiamo altrettanto bene che per fare questo oltre che ad essere informati di poterlo realizzare bisogna anche volerlo: intendiamoci subito! Non che le persone siano pigre, non ci sarebbe nulla di male, ma qualcuno dovrebbe raccontare ad altri che coloro (intendo la maggior parte) che finiscono in una cooperativa di pulizie vi entrino per condividere non solo un lavoro faticoso ed un misero stipendio, ma anche la mission della cooperativa. Perché condividere e decidere all’interno di una struttura imprenditoriale significa sempre e comunque lavorare e spesso sottrarre spazi ad altri tempi di vita. Quante volte, ad esempio, le assemblee dei soci vengono convocate in week-end comunitari non retribuiti? O di sera, aperitivo compreso? E qui viene subito messo in luce il carattere prettamente ideologico che da sempre contraddistingue la cooperazione: l’adesione ai valori sottostanti è un prerequisito all’ammissione stessa nella società. Non condivido, però, l’opinione di chi sostiene che la cooperazione sia in nuce l’anticipazione di un possibile sistema toyotistico di integrazione totale nella macchina produttiva. Può darsi, al contrario, che questa modalità di costituzione societaria abbia alcune caratteristiche che facilmente si adattano al sistema integrazionista di competizione totale. Ma è altrettanto vero che tali e tante sono le contraddizioni insite nel sistema cooperativistico che la conflittualità che esprime qua e là in forma spuria non è ascrivibile certo ad un parametro di impresa organica. Che, poi, questa conflittualità latente non trovi canali di uscita apprezzabili è un altro conto.
Il lavoratore
In una pubblicazione dell’I.re.ccoop Piemonte (AAVV, Impresa cooperativa, Norme giuridiche, adempimenti e agevolazioni, Torino, 1997) si afferma: “Il protocollo (riferimento Accordo economico collettivo 16 novembre 1988 sottoscritto da CGIL, CISL, UIL e centrali cooperative) sottolinea i caratteri imprenditoriali della figura del socio, riafferma la prevalenza delle deliberazioni dell’assemblea dei soci su ogni altra norma e prevede che per il trattamento economico complessivo della prestazione di lavoro del socio si faccia riferimento al contratto.” (p. 196). In questa brevissima sintesi c’è il succo della ragione giuridica e filosofica secondo cui le centrali cooperative (Lega delle cooperative e Confcooperative sono le più rappresentative) e i sindacati di stato interpretano il rapporto di lavoro che intercorre tra cooperativa e socio.
I punti salienti sono tre:
1.    Il carattere imprenditoriale della figura del socio all’interno della cooperativa;
2.    La prevalenza delle decisioni assembleari su ogni altra norma;
3.    Conseguentemente al punto 2, il contratto nazionale di lavoro come riferimento.
Questo significa, per il primo punto, che dovrebbe prevalere la natura imprenditoriale del socio di cooperativa indipendentemente dalle mansioni svolte, sia che esso prenda un salario pari a 1.200.000 al mese o che fatturi 1.000.000.000 l’anno come agricoltore associato, etc. Per il secondo punto che le norme interne hanno prevalenza sulla giurisdizione nazionale: questo significa che gran parte della materia che regola i rapporti di lavoro viene demandata ai famigerati regolamenti interni veri volani della precarizzazione: infatti, i regolamenti interni sono quasi sempre (90% dei casi) peggiorativi del contratto collettivo nazionale, con delle punte di notevole aggravamento. Ci sono cooperative di produzione e lavoro che attraverso i regolamenti interni determinano:
1.    non retribuzione della malattia;
2.    non retribuzione delle ferie;
3.    non retribuzione di straordinari, festivi e quant’altro;
4.    inquadramento all’ultimo livello del contratto collettivo, indipendentemente dalle mansioni svolte;
5.    uso a cottimo del socio (interinale non regolamentato);
6.    materiale antinfortunistico a carico del socio…
La cosa buffa è che tutte queste decisioni, ci vorrebbero far credere, dovrebbero essere state prese democraticamente in un’assemblea aperta in cui i soci lavoratori facevano a gara nel ribasso delle garanzie e dei diritti e decretavano ufficialmente che il Masochismo era diventato credo ufficiale e verbo all’interno della loro cooperativa. Per il terzo punto, conseguentemente ai primi due, il CCNL non può che essere un riferimento la cui applicazione integrale viene demandata alla caritatevole decisione del C. di A. Viene da sorridere quando si sente dire che “la mia è una buona cooperativa perché applica integralmente il contratto.” In altri luoghi di lavoro ciò è scontato (o almeno lo era), nella cooperazione è una straordinarietà. E badate bene che si sta parlando di contratti nazionali miserevoli: la cosa incredibile, infatti, è anche quella per cui delle cooperative si permettono di non rispettare non dei lussuosi accordi milionari che elargiscono smisurate ricchezze a dei lavoratori, ma delle intese che spesso consentono a chi le riceve di poterci a mala pena campare sopra. Non parliamo, poi, della giurisprudenza ufficiale che ha l’ingrato compito di far quadrare il cerchio, ovvero quello di conciliare l’imprenditore con il salariato nella stessa figura giuridica e umana. A livello generale la letteratura giurisprudenziale afferma che il rapporto che intercorre tra la cooperativa di lavoro ed il socio si qualifica come adempimento del rapporto mutualistico prestato per l’attuazione dei fini della società. Il rapporto di lavoro si configura quindi come sociale. Da qui discende che il salario è, in realtà, una remunerazione, costituita da compensi periodici che rappresentano degli acconti rispetto al risultato della gestione annuale. Il legislatore, per ragioni di giustizia sostanziale, ha introdotto delle previsioni normative con le quali i soci lavoratori sono assimilati ai lavoratori dipendenti: assicurazioni sociali, previdenza ecc. La cooperativa, ad esempio, che usufruisca delle agevolazioni previste dalle leggi di inserimento, ovvero i contratti di formazione e lavoro, l’apprendistato, la disoccupazione di lunga durata e la mobilità, non può chiedere al lavoratore di diventare socio sino alla scadenza prevista per le agevolazioni. Vi sono poi altre situazioni che connaturano il rapporto tra cooperativa e lavoratore, anche quand’esso fosse socio, nelle modalità tipiche di un rapporto subordinato: è il caso, a mio avviso, del periodo di prova o del preavviso necessario per le dimissioni. Se il rapporto di lavoro fosse esclusivamente societario, sarebbero ragioni sufficienti la richiesta di ammissione e di dimissione in qualità di socio (che non richiedono preavvisi) e non tanto le richieste di assunzione e licenziamento in qualità di lavoratore. Gli esempi potrebbero continuare ma una cosa è certa: il socio danneggia spesso il lavoratore e non se ne capisce il motivo dal momento che si tratta sempre della stessa persona.

Pietro Stara

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