Dibattito pedagogia libertaria su A

Dar voce a chi vi lavora


Abbiamo letto e riletto, con molta attenzione, il corposo dossier riguardante l’educazione libertaria pubblicato sul numero estivo della rivista (“Scuole pubbliche non statali e…”, a cura di Francesco Codello, “A” 409, estate 2016, pp. 119/153). Un lavoro egregio, per molti versi anche esaustivo ma non per tutti. Anche in questa occasione, e di questo ce ne rammarichiamo, così come nei numerosi incontri su questo tema a cui abbiamo partecipato, vi è sempre un eccellente coppia di esclusi: il lavoratore e la lavoratrice.


Abbiamo formazione accademica ed esperienza lavorativa in campo pedagogico, abbiamo, in diverse occasioni, provato a dar vita a contesti educativi ad orientamento libertario quindi, il nostro intervento qui, non vuole entrare nel merito dell’impostazione teorica proposta, anche se qualche critica potremmo avanzarla, ma riproporre ancora la questione: perché non dare voce a chi in questi contesti vi lavora? In quali condizioni? Con che orari giornalieri e settimanali di lavoro (perché di lavoro si tratta)? Con quali retribuzioni?
Chi lavora in ambito sociale in generale e nello specifico in quello educativo, sa di cosa stiamo parlando. L’apparato ideologico che sovraintende alle condizioni di lavoro è lo stesso dovunque. “La nostra non è impresa nel senso commerciale del termine, ma in senso etico. Lavoriamo per persone che hanno bisogno di noi. E nel farlo dobbiamo metterci a disposizione”. Tanta e tale retorica moralista si traduce in dimensioni e materialità quotidiana avvilente per chi (dirigenti esclusi) vi lavora. Si accettano stipendi da fame (basta dare un’occhiata ai tanti contratti fotocopia del settore) a fronte di elevata professionalità richiesta sia in termini di esperienza lavorativa che di formazione universitaria, si lavora anche più delle 38 ore settimanali previste, si fanno persino notti gratis per chi lavora in Comunità o servizi residenziali. E protestare non è solo un comportamento inaccettabile sul piano sindacale, è una specie di atto di lesa maestà, qualcosa di inconcepibile sul piano mentale e psicologico prima ancora che politico o di rivendicazione. Se la nostra è una missione, qui vanno bene solo dei missionari. Ovvio. Il punto è che sono proprio tutti così.
Quelli che si richiamano alla dimensione cattolica, e va bene; ma anche le cooperative di cosiddetti o sedicenti compagni, quelli che “l’educazione è una cosa laica”, che “viva la Costituzione”, che “ora e sempre resistenza”. E anche qui, tutto ovvio. Ma c’è un altro punto che va tenuto in considerazione. Ci sono i grandi gruppi che fanno riferimento al Vaticano, i preti guru che hanno fondato imperi anche economici sulla solidarietà, l’accoglienza, la scuola e l’educazione. E ci sono i grandi colossi della cooperazione che scodinzolano al tavolo del primo politicante per arraffare le briciole di qualche progetto di “coesione sociale” (e ci vorrebbe un articolo solo per approfondire la distorsione linguistica con cui vengono usati certi termini). Ci sono insomma quelli che sono solo un po’ meno rozzi e cattivi e volgari di chi è finito nella rete di “Roma-Mafia Capitale”.
Ma non ci sono solo loro. Ci sono anche le tante piccole cooperative, quelle magari formate da solo qualche socio, che a quello che fanno ci credono, che non vogliono arricchirsi e non vogliono sfruttare i lavoratori e le lavoratrici, persone oneste e spesso con qualche velo di utopia, che portano avanti quella che, anche per loro, è una “missione”. In questo luoghi non sempre funzionano dimensioni esclusivamente gerarchiche, le lavoratrici e i lavoratori sono spesso coinvolti e quasi tutto è discusso con loro, in tante situazioni l’assemblea dei soci è davvero sovrana e i bilanci sono pubblici e trasparenti. I dirigenti non hanno stipendi più alti degli altri, se non quel poco garantito dal contratto nazionale. Eppure anche qui chi vi lavora, proprio in ragione della “missione superiore” è oggetto di sfruttamento. E anche qui “sindacalizzazione” della forza lavoro è tabù, è avvertita come minaccia, dichiarata avversione.
Normalmente, sul piano della rivendicazione della professionalità educativa, combattiamo anche realtà come queste, consapevoli che nessuna dimensione lavorativa, neppure quelle che coinvolgono le lavoratrici e i lavoratori, che li rendono partecipi delle scelte educative, che condividono le filosofie pedagogiche e di approccio, possono essere accettate se non garantiscono (non possono o non vogliono garantire) condizioni quotidiane, sia d’ambiante che d’orario di lavoro e salariali, almeno dignitose. E che, per chi vive in una metropoli come Milano come noi, significa necessariamente stare sopra i 1200€ mensili.
Su questo non abbiamo mai mollato, facendo battaglia sindacale e subendo spesso attacchi se non veri e propri atteggiamenti di mobbing (beninteso gentili, buoni ed educati, come nello stile del settore). Per chi si propone la grande sfida di avviare progetti di educazione ispirata ai modelli libertari, sfida che potrebbe vedere interessate moltissime persone (inclusi i sottoscritti!) che in questo campo hanno acquisito esperienza e competenza questo è un passaggio ineludibile. Per molteplici ragioni: perché non si può vivere (in nessun ambito) serenamente se quello che fai non ti consente, detta brutalmente e senza mezzi termini, di arrivare a fine mese; perché lo sfruttamento non è minore, o diverso o più accettabile, se è autosfruttamento ammantato di ideologia; perché rivendichiamo la rabbia e l’indignazione di fronte alle nostre buste paga – per i sempre meno che la possono avere – e sarà così finché i salari non saranno diversi e migliori. Qualunque sia l’ambito di lavoro.
E si potrebbe quindi dire, e sintetizzare, perché è semplicemente giusto così. Attendiamo risposte…

Alberto Piccitto
Paolo Masala
Milano

Da A Rivista anarchica numero 410 – ottobre 2016


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