2016: l’altro anniversario

2016 è anniversario di un fatto centrale: la rivoluzione spagnola, in cui Usi-Ait ha toccato uno dei vertici della sua storia centenaria. 2016 è anche la ricorrenza di un fatto che con la sua forza intellettuale prepara il secondo Biennio rosso, 1968-1969, e il rinnovato protagonismo dell’azione diretta operaia : la pubblicazione di Operai e capitale’. Restando al libro, rifiutiamo il leninismo (sebbene filtrato da Rodolfo Morandi) in esso ricorrente: non è per noi. Non ci interessano i percorsi successivamente intrapresi dall’autore, Mario Tronti, e da ciascun operaista. Consideriamo i riferimenti critici all’anarcosindacalismo e al sindacalismo rivoluzionario del libro come esempi di un pensiero fecondo, che si forma dialogando con le esperienze storiche del sindacalismo d’azione diretta. Einaudi lo pubblicò nel 1966. Oggi, è DeriveApprodi a ripubblicare il testo, che ha notevole qualità ed è composto di una serie di saggi usciti dapprima su piccole riviste dissidenti, come potrebbe essere la nostra ‘Lotta di classe’, che sono esempio dell’importanza di un lavoro intellettuale a stretto contatto con le cose materiali. Uno degli omaggi più efficaci ad ‘Operai e capitale’ è lo scritto di Sergio Bologna che riproduciamo ad uso di chi milita nell’Unione e dei più giovani che cercano strade non banali per un lavoro intellettuale e militante.

 

Dove lo festeggiamo questo anniversario? In qualche aula universitaria stipata di reduci, baroni, mutilati, vedove,traditori, rincoglioniti,dottorandi?Oppure in qualche spazioso edificio industriale dismesso, ristrutturato con arte da architetti di grido, oggi show room di griffe nostrane, per l’occasione prestato allo sponsor, lieto di officiar l’ennesimo funerale alla classe operaia? Preferirei altre location. In un call center, per esempio, là dove è richiesta ormai la laurea in lettere ( o in scienze della comunicazione) per avere un posto. Oppure a Shangai dove di domenica Ronzolon di fu Giuseppe da Montebelluna addestra cinesi alle macchine utensili italiane. Oppure a Milano dove l’ex co.co.co. spara curricula a tutto spiano dalla sua mansarda, sperando in un colloquio dove gli diranno”Ha passato i quaranta? Ma che cazzo pretende?” Oppure alla Granetti & figli,arredi per esterni,dove il socio di private equity ha pronto un piano di ristrutturazione che caccia sì un po’di gente ma porta l’ebit a 2,7. Oppure in un normalissimo appartamento middle class dove una biologa russa rifà i letti, lava i pavimenti ma spunta pur sempre una paga oraria migliore dei figli del padrone di casa, uno praticante presso un avvocato di grido l’altra freelance per riviste di moda. Ricorderei questo anniversario in mezzo al lavoro dei giovani d’oggi. Con il rischio, certamente,di far apparire il linguaggio di ‘Operai e capitale’ un idioma incomprensibile, ma sempre meglio correre questo rischio, sottoponendo il testo alla prova del presente, piuttosto che vederlo imbalsamato in una teca portareliquie. Fu la grande novità che ‘Operai e capitale’ introdusse nella cultura degli anni Sessanta:dimostrare che era ancora possibile costruire un pensiero. Là dove imperavano schemi ideologici, retaggio delle dispute dell’Internazionale,Tronti rimetteva in gioco il coraggio del pensiero fondatore, là dove si cucinavano glosse alle scritture di Marx, Tronti recuperava il senso di una reinterpretazione che diventava sistema. Un sistema chiuso, coerente, costrittivo, assertorio, esposto con un pizzico di enfasi messianica, che rompeva il tran tran del dibattito quotidiano, del chiacchiericcio, spezzava gli indugi dell’empiria. Tronti ridiede una cittadinanza ai visionari, a chi aveva bisogno in quel momento di un’utopia occidentale, soggiogati come erano tutti dalle narrazioni rivoluzionarie che venivano dal Maghreb, dall’Asia, dall’America Latina. E proprio perché si trattava di un sistema di pensiero infondeva certezze a chi la crisi del comunismo, iniziata con la rivolta operaia di Berlino e poi con la rivolta ungherese del ’56, provocava sconcerto e smarrimento. Il punto critico, si è detto, stava nel rapporto tra astrazione e ricerca empirica. ‘Operai e capitale’ non nasce dal cervello di un intellettuale singolo ma dalla passione di chi voleva capire che razza di cambiamento era avvenuto in quel specifico mondo del lavoro che è la grande fabbrica, nasce dalla voglia d’interrogarsi e di comunicare di centinaia di operai, nasce dall’impazienza di militanti di base del Pci,del Psi, della Cgil, di anarchici,trotskysti, internazionalisti, cioè di un personale politico preesistente, stufo di essere congelato, ibernato dall’agonia del comunismo, di cui allora si vedevano i primi sintomi e che ancora, maledizione,dopo quarant’anni, appesta l’aria. Mario Tronti diede uno strumento teorico a una parte di questo personale politico, riuscì a trovare una sintesi alle migliaia di spunti che l’esperienza di ogni giorno, il contatto con una classe operaia che si stava risvegliando,consentivano di trasmettere. Panzieri lo aveva portato ai ‘Quaderni rossi’, Negri lo spingerà il ‘Classe operaia’ , ma nel 1966, quando il libro esce, lui stava già tornando al capezzale del comunismo per provare un nuovo tipo di flebo. Il rapporto con la ricerca di base, con l’approccio “sociologico”, era complesso e non a caso produsse lacerazioni. Ma non perché gli uni erano ‘concreti’o ‘realisti’ e gli altri erano ‘astratti’. Perché c’erano da smaltire cinquant’anni di uno schema mentale che così recitava: prima viene il capitale, procura le macchine, recluta la manodopera, si consolida la struttura e la mano d’opera diventa forza lavoro, l’azione del partito la farà diventare classe operaia, soggetto politico ed economico insieme. ‘Operai e capitale’, Bibbia di quello che verrà chiamato l’’operaismo italiano’, rovescia la sequenza: prima viene la classe operaia come soggetto politico antagonista (si deve ‘pensarla’così)poi viene tutto il resto, piano del capitale,anarchia monetaria, ordine politico e via dicendo. Pertanto l’operaismo italiano-a mio avviso-rompe con la tradizione comunista, è il primo movimento postcomunista. Purtroppo molti dei suoi protagonisti si misero in testa invece di essere loro i ‘veri’ comunisti. In qualche superstite è rimasta l’antica voglia di capire perché il lavoro, invece di seguire la profezia operaista che lo vedeva unificarsi in un blocco sociale temibile, si è andato disgregando, atomizzando.(Secondo l’ultimo Rapporto annuale Istat,il 46,6 % degli italiani lavora in cosiddette ‘microimprese’ che altro non sono, a volerle chiamare con il loro vero nome, lavoratori autonomi con qualche dipendente, dato che la loro dimensione media è di 2,7 addetti). Quei superstiti hanno lavorato per circa trent’anni, brancolando in un buio teorico,per capire dove stava andando il lavoro. Non dovettero cercare lontano, seguirono semplicemente le vicende umane degli operai coinvolti nelle lotte dell’autunno caldo e degli anni successivi, poi quelle dei loro figli o dei propri figli. Dopo 30 anni di lavoro un quadro del cosiddetto ‘postfordismo’erano in grado di offrirlo, le loro analisi coincidevano perfettamente con le ricerche di mezzo mondo, le migliori quelle di mano femminile. Poteva essere una base per costruire politiche del lavoro in grado di ristabilire alcuni squilibri che ormai fanno orrore anche ai liberali onesti. E invece si trovano di nuovo messi la bando, i loro trent’anni di lavoro azzerati da un governo che doveva essere amico, con alcuni che pensano di riprodurre forza lavoro per decreto amministrativo (nella tradizione comunista c’era anche chi lo faceva deportando), altri che sfoderano un grottesco’neo operaismo’ e rimettono al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato( quasi fosse un pallone da rimettere al centro dopo un goal),altri ancora che pensano di combattere il lavoro atipico peggiorando le condizioni di chi è costretto a esercitarlo. Sono tutti in qualche modo figli della tradizione comunista. E proprio per questo è così bello,gratificante, essere stati ‘operaisti’, estranei a quella tradizione. A mio parere ‘Operai e capitale’è ancora un testo che mal si concilia con la sinistra italiana, non solo di oggi ma anche di ieri. Furono messi nei suoi confronti giudizi sprezzanti: è un testo di lirica ( Tronti novello Petrarca e la classe operaia che assume le vesti di Laura).Fu vituperato come apologia del capitale, per la tesi che ‘le lotte operaie producono sviluppo capitalistico’. Ma non andò così lontano dal vero, se guardiamo la vicenda Fiat. Dal 1969 al 1982 scossa da una conflittualità permanente , assediata da attentati e gambizzazioni, esce più forte di prima, con un livello tecnologico che non ha pari al mondo. Dal 1980 al 2002 gode di una pace sociale assoluta, esercita un potere incontrastato nella società, ne esce sull’orlo del fallimento. Sottoposto alla prova del presente, ‘Operai e capitale’ ha ancora qualcosa da insegnare.

 

‘Quarant’anni dalla pubblicazione di operai e stato!’, Il Manifesto 12/11/06; ora nel bellissimo: “Ceti medi senza futuro?” Sergio Bologna, Deriveapprodi

 

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