…l’Alternativa al capitalismo: Conferenza Internazionale a Leòn – Spagna – dell’A.I.T.

…Da anni ormai, rianalizzando l’ultima sconfitta disastrosa subita e vissuta direttamente nell’anni 70, mi son ritrovato a pensare che l’unico modo per battere il Capitalismo sia batterlo lì dove lui fonda le sue radici, dove trova la sua linfa vitale, dove si costituisce ovvero l’economia; costruire un’ economia diversa, che garantisca l’espressione di una socialità diversa, che trasformi il quotidiano giorno dopo giorno elevando sempre più la qualità della vita, che dimostri in maniera inequivocabile che si può, che l’utopia è un’invenzione del Potere, che l’Emancipazione è realmente nelle nostre mani, che la Rivoluzione è una cosa banale come andare a lavorare e che quindi tutti la possono fare giorno dopo giorno strappandola, finalmente, dalle mani degl’Eroi!.. e, che dà anche, più capacità, forza e resistenza nello scontro diretto e quotidiano col “padrone”…Questo è quello che scrivevo in un mio vecchio articolo agli inizi degli anni 90 – Parlar di Rivoluzione… mangiando dal supermarket ? – ora e finalmente c’è un sentire comune in più parti del mondo,

in Spagna la C.N.T., per il suo Centenario, ha dedicato ampio spazio a questo dibattito e ne scaturisce anche una Conferenza Internazionale dell’A.I.T. a Leòn, in località La Vecilla per il 13-14-15 di agosto e l’Unione Sindacale Italiana sarà presente con la sua delegazione.

Quello che segue è il documento che l’U.S.I. ha preparato per la Conferenza di Leòn che segna una tappa importante della nuova fase che si è finalmente aperta nell’ultimo Congresso che è stato straordinario.

Gino Ancona

(delegato alla Conferenza di Leòn)

Segreteria Sindacato Arti e Mestieri U.S.I.-A.I.T.

 


Anarcosindacalismo:

una prospettiva di trasformazione sociale

La forza-lavoro in Italia

La distribuzione della forza lavoro in Italia è quella tipica dei paesi economicamente più sviluppati che hanno subito forti processi di delocalizzazione produttiva: nel 2009 risultavano 23.203 mila occupati (circa il 60% uomini e il 40% donne), così distribuiti, oltre il 66% nei servizi, circa il 30% nell’industria e quasi il 4% in agricoltura. L’incidenza del lavoro autonomo è di circa il 25%. Il tasso di disoccupazione ufficiale ha raggiunto nel 2010 il 9,1%. Quello reale, probabilmente, supera largamente il 10%, perché molti hanno smesso semplicemente di cercare lavoro e non si iscrivono più agli uffici di collocamento. Tra gli occupati, quelli che hanno una condizione lavorativa precaria (lavoro a tempo determinato e contratti di collaborazione) sono quasi quattro milioni, di cui circa il 25% è alla ricerca di lavoro. I lavoratori stranieri (comunitari o extracomunitari, ovviamente solo quelli in regola col permesso di soggiorno) sono, nel 2010, quasi 3.500.000.

Il lavoro precario

Da questo intreccio di dati, non semplice da interpretare, emerge comunque che la figura tradizionale del “lavoratore italiano garantito” – quello cioè impiegato a tempo indeterminato, dipendente di medie o grandi aziende private o del settore pubblico –  non è più assolutamente preponderante, anche se rimane relativamente maggioritaria, mentre è grandemente cresciuto il peso del lavoro precario. Questa situazione si è determinata e aggravata negli anni ad opera dell’azione congiunta dei governi (la prima legge sulla precarietà è la 196 del 1997, detta Pacchetto Treu e quella che ha diffuso enormemente il precariato è la 30 del 2003, detta Legge Biagi) e del padronato, deciso a salvaguardare i propri profitti tagliando i costi del lavoro dipendente ma anche di accordi con i sindacati istituzionali (uno per tutti l’accordo del luglio 1993)

Vaste fasce di popolazione hanno oggi, un rapporto fragile e discontinuo con il lavoro. Ciò pone problemi, sia in rapporto alla loro forza contrattuale, che alla loro possibilità di organizzarsi, considerando anche la loro dispersione sul territorio. Per i sindacati di Stato (Cgil, Cisl e Uil) il lavoratore precario è poco interessante perché non garantisce entrate fisse tramite regolare trattenuta della quota sindacale in busta paga. Il precario è considerato un lavoratore di seconda categoria  e  lo stesso vale per i lavoratori immigrati, verso i quali spesso viene svolta solo un’attività di tipo assistenziale. Lo stesso avviene, purtroppo, in alcuni sindacati di base.

Prospettive e piani di lotta

La domanda che ci poniamo è dunque, come può un sindacato libertario e autogestionario contribuire all’organizzazione e alle lotte dei lavoratori precari in una prospettiva anarco-sindacalista di classe?

La risposta non può che essere con una battaglia su tre fronti.

Il primo è quello culturale, il secondo è quello delle concrete lotte sindacali sui posti di lavoro, il terzo è quello delle pratiche realizzazioni autogestionarie.

Con battaglia culturale intendiamo una campagna per il recupero della solidarietà e l’unità di classe. Al di fuori di queste coordinate, ogni lotta non può essere che settoriale, corporativa e dunque debole e destinata alla sconfitta. Il riconoscimento dell’autonomia e dell’alterità dei proletari rispetto all’esistente sistema socio-economico è il primo passo, così come lo è l’inconciliabilità dei loro interessi con quelli del capitale. La solidarietà e la lotta di classe deve, necessariamente, non limitarsi entro confini nazionali, ma rilanciando l’internazionalismo dei lavoratori e di classe.

Con lotta sindacale concreta si intende una lotta che parta dai posti di lavoro, dalle reali situazioni di sfruttamento che i lavoratori vivono, e che unifichi le rivendicazioni qualunque sia il regime contrattuale al quale sono sottoposti: tempo indeterminato, contratti a termine, contratti atipici, lavoratori interinali, ecc., sulla base del principio “ad uguale lavoro uguale salario, uguale orario, uguali condizioni normative”. La solidarietà e la lotta di classe deve, necessariamente, non limitarsi entro confini nazionali, ma rilanciando l’internazionalismo dei lavoratori e di classe.

Solo collegando sul piano delle lotte reali il precariato con il lavoro “garantito” si evita il rischio di marginalizzarlo e di renderlo subordinato, prima ancora che sul piano tecnico su quello della coscienza dei lavoratori e nelle nostre teste. Inoltre oggi capita di assistere a una riproduzione del potere gerarchico in scala minore tra lavoratori a tempo indeterminato verso lavoratori precari, ciò oltre ad essere un nemico dell’unità di classe replica e facilita l’interiorizzazione della gerarchia sfruttante. Ciò rappresenta una difficoltà ma è una battaglia, anche di tipo culturale, che non può essere evitata e neanche ignorata.

Il progetto autogestionario

Per concrete realizzazioni autogestionarie intendiamo la ricomposizione del  tessuto sociale su basi solidaristiche, che è quanto di più originale e specifico c’è nella nostra concezione sindacale. Quindi la creazione, fin da subito, di un circuito economico e culturale alternativo alle logiche capitalistiche, in grado di sostituire progressivamente, nella vita economica e sociale, l’idea di solidarietà a quella di profitto, il mutualismo alla concorrenza del mercato. Un luogo di aggregazione, di propaganda con i fatti, più che con le parole, dei principi libertari e che, nello stesso tempo, dia la possibilità di vivere e non solo di sopravvivere, producendo reddito, non estorto con lo sfruttamento, ma liberamente prodotto con la cooperazione solidale.

Alle  nuove categorie di lavoratori, come i precari e parcellizzati, agli immigrati e ai disoccupati è necessario fornire un’alternativa di lavoro credibile, che sia anche un’opportunità di riscatto della loro esistenza, consapevole o meno, da sfruttati.

L’alternativa è da costruire proprio creando  realtà autogestite di produzione, di distribuzione e di servizi che funzionino e avvicinando a queste realtà quelle tipologie di lavoratori che sarebbero più disposte ad abbandonare la propria condizione di sfruttati; questo darebbe più forza e dignità a chi, altrimenti, resterebbe in una condizione di estrema ricattabilità da parte del sistema padronale ed inoltre sarebbe anche una valida risposta alla disoccupazione e una mano fraterna tesa verso l’immigrazione, che come già successo in tempi passati, potrebbe aprire orizzonti al di là dei confini nazionali, verso altri paesi dove il mutualismo risolverebbe molti problemi.

L’autogestione non è una teoria filosofica, ma qualcosa che si costruisce, in prima persona, confrontandosi concretamente con la realtà, sperimentando quotidianamente le ipotesi di lavoro fino al punto di aprire un percorso reale che cresca e si affermi per la sua validità intrinseca. Lo scontro, verosimilmente sarà inevitabile, perchè alle realizzazioni autogestionarie vi sarà un’opposizione e un attacco che mirerà ad azzerare tali risultati. A tale scontro bisognerà arrivarci avendo realizzato dei reali progetti da opporre e non soltanto vuote parole. L’autogestione combatte l’oppressione concretamente con l’Emancipazione e non con la violenza politicantistica, che storicamente ha generato nuova oppressione ma con un linguaggio concreto di Libertà, e quando si renderà necessario difendendo, quello che si è costruito, con forza e massima determinazione, ciò che fu chiamato “Rivoluzione di Capacità ” da Proudhon. L’azione diretta non è un assalto frontale al potere, ma la partecipazione diretta alla costruzione del processo di Emancipazione.

Una rete solidaristica, cooperativistica e mutualista

Ma come si può, nei fatti, iniziare a costruire una rete solidaristica? In Italia non ci sono imprese autogestite, dove i lavoratori abbiano sostituito i padroni falliti come alla Zanon argentina. La cultura sindacale tradizionale italiana prevede che ci sia un padrone con cui contrattare e non che dei lavoratori gestiscano, organizzino e producano in prima persona. Anche lo stesso circuito cooperativo, formalmente assai esteso, è costituito prevalentemente da realtà produttive e/o di consumo (piccole, medie o anche molto grandi) che hanno assunto la forma di cooperativa per i vantaggi garantiti dalla nostra legislazione, ma che nella sostanza rimangono aziende private dove i guadagni diventano il profitto di pochi. Tipica è in questo senso la figura del “socio-lavoratore”, formalmente compartecipe agli utili, ma in realtà lavoratore subordinato che partecipa solo alle perdite e con meno diritti di quelli di un comune lavoratore dipendente in un’azienda privata. Neppure la pratica, assai diffusa, dei gruppi d’acquisto solidale (acquisti collettivi direttamente dai produttori) riesce spesso a sfuggire alle logiche mercantili e commerciali, né all’istituzionalizzazione.

Quello che c’è da fare è, in primo luogo, collegare tutte quelle piccole realtà autogestionarie, sia di produzione che di consumo, che già esistono e che rischiano di soccombere, causa la loro dispersione, di fronte alle logiche di mercato e ai costi di distribuzione. Il secondo passo è attivarne o comunque favorirne di nuove, a partire dalle forme solidaristiche più elementari (Spacci Popolari Autogestiti, strumenti fondamentali per accorciare la filiera produttore-utilizzatore, favorire le produzioni locali, rispettose della qualità e del lavoro che vi è impiegato), per arrivare a quelle più complesse: cooperative libertarie di produzione o di servizi, ambulatori popolari, biblioteche popolari, casse di solidarietà, ecc. Creare dunque strutture autogestite che producano reddito per chi vi lavora (e non profitto) e utilità per i proletari e collegarle in una rete di efficienza e di capacità parallela, ma antagonista alla logica capitalista del mercato e dello sfruttamento.

In questo processo un sindacato come il nostro può fare molto, integrando il progetto autogestionario nella strategia di difesa intransigente degli interessi del proletariato sul posto di lavoro e, quando questo non c’è, nella società.

Non diciamo e non scriviamo nulla di nuovo: il movimento operaio, in Italia, come in altri paesi, alle sue origini aveva tre anime, quella delle leghe di resistenza, quella mutualista e quella cooperativistica. Si tratta di recuperare quella tradizione di matrice libertaria e adeguarla ai tempi. Però bisogna cominciare a farlo accelerando il passo e non solo parlarne.

In conclusione va detto, in maniera forte, che tutto quello che abbiamo affermato perde di significato se non è legato alla difesa del territorio, dei beni pubblici e alla salvaguardia dell’Ambiente; un processo rivoluzionario non può prescindere una ricomposizione armonica dei rapporti con la Natura ed il Paesaggio.

Segreteria Nazionale USI-AIT

Commissione Esecutiva USI-AIT

Segreteria Nazionale Sindacato Arti e Mestieri USI-AIT

 

Anarchosyndicalism:

a perspective for social change

Workforce in Italy

The layout of workforce in Italy is typical of those economically developed countries whose productive system has undergone strong delocalization processes: in 2009 there were 23,203,000 (some 60% men and 40% women), arranged as follows, more than 66% in services, more or less 30% in the industry and some 4% in agriculture). Self-employment counts for some 25%. In 2010 official unemployment rate reached 9,1%, but in reality it is likely to be greater than 10%, as many people simply gave up finding a job and do not enlist in the employment bureaus anymore. Among employed people, those who have precarious working conditions (fixed-term contract and collaboration contracts) are about 4 millions, of which 25% is currently in search of a job. In 2010, foreign workers (EU citizens or not-UE citizens, clearly only those with permit of stay) are about 3,500,000.

Precarious work

This plot of data, not easy to explain, clearly says that the classical “guaranteed Italian worker” – i.e. an open-ended contract employee of a medium or big private or public firm – is surely not anymore the prevailing case – even if it remains, in the relative way, the most widespread one – while the weight of precarious work had a huge growth.

This situation has been determined and got worse thanks to the joined action of governments (the first law about precarious work is n° 196 of 1997, called the Treu Act, and the one who let precariousness get widespread is n° 30 of 2003, called Biagi Act) and bosses, determined to defend their own profit, by cutting employees’ pays, but also thanks to some agreements with institutional unions (just for example, the one subscribed in July, 1993).

Today, a great part of the population has a fragile and discontinuous relation with their job. This sets some problems, both with regard to their contractual power and with regard to the possibility of organizing themselves, due to their being scattered about. State unions (Cgil, Cisl e Uil) consider precarious workers not so interesting, because they do not guarantee stable revenues for union fees through deductions from the pay packet. A precarious worker is considered a second-class worker, he same for inmigrant workers, who are often targets of welfare-kind actions. The same, unfortunately, happens in some base unions.

Perspectives and struggle plans

The question now is: how can a selfmanaged, libertarian union like ours contribute to the organization and to the struggles of precarious workers within a class, anarchosyndicalist perspective?

The answer obviously is: through a battle on three fronts.

The first front is the cultural one, the second one is the one about real syndacal struggles on the workplace, the third one is the one about concrete selfmanagement realities.

In our view, a cultural battle is a campaign for the retrieval of solidarity and class unity. Every struggle which is out of these coordinates is nothing but a sector-based, corporative and thus weak struggle, bound to be defeated. The first step is to recognize the authonomy and otherness of the proletarians with regardto the actual social economic system, and to stress the incompatibility of their interests with those of capitalists. Solidarity and class struggle must necessarily not confine themselves inside national borders, but relaunch working class internationalism.

For us, syndacal struggle means a struggle which start straight from the workplace, where workers really experiment exploitation, and unifies their demands, whatever the working conditions may be: open-ended contracts, fixed-term contract, atypical contracts, temporary workers, etc. on the basis of the following principle: “same work, same pay, same working hours, same working conditions”.

Only by connecting  precariousness with  “guaranteed” work we can avoid the risk of  neglecting it and making it subordinated, in the workers’ concience and in our own head, more than on a technical level.  Moreover, we happen to see a replication of hierarchical power on a lower scale between open-ended contract workers and precarious workers: and this, beside being an enemy of class unity, replicates and fosters an interiorization of exploiting hierarchy. It is a hindrance, but it’s a battle, even of a cultural   kind, which we can not avoid, nor even neglect.

The selfmanagement project

For us, concrete selfmanagement realities means to reassemble again the social tissue on a solidarity basis, which is the most typical and specific element of our conception of trade union. So, it is the inmediate creation of an economic and cultural circuit, which must be alternative to capitalistic logic, which is able to replace progressively, in economic and social life, the idea of solidarity to that one of profit, mutualism to market competition. A meeting place, a plce for facts-propoaganda more than words-propoaganda of our libertarian principles and which, at the same time, would give the possibility to live, and not only to survive, by generating an income, not elicited through exploitation, but freely created thanks to solidal cooperation.

We must provide new cathegories of workers  – precarious, compartmentalized workers, inmigrants, unemplyed – with a credible job alternative, which could also be an opportunity of redeeming their lives, that are, knowingly or not, exploited.

We must build up an alternative by creating well-functioning, selfmanaged realities in the sectors  of production, distribution and in the services, and by making those workers who are inclined to quit their condition of exploitation come closer to these realities; this would give more strength and dignity to those who, on the contrary, would remain highly blackmailable by the proprietorial system, and moreover would be an effective answer to unemployment and a brotherly hand to lend to inmigrants, who, as in the past, could open new horizons beyond national borders, towards other countries in which mutualism could solve many problems.

Selfmanagement is not a philosophical theory, but something to create concretely, at first hand, by facing reality, constantly experimenting hipothesis of work, till starting a concrete way, which grows and asserts itself as intrinsically valid. A clash will be inevitable, as these realities will suffer an attack and opposition, aimed to nullify all kind of results. We must prepare ourselves to face this clash by activating concrete and actual projects, not only empty words. Selfmanagement fights against oppression concretely through Emancipation and not through politicking violence, which has historically born more oppression, but through a language of Freedom, and if necessary, by defending strongly and resolutely what we would have built: which Prodhoun called “Revolution of Capacities”. Direct action is not a frontal attack to power, but a full participation to the building up of an Emancipation process.

A network of solidarity, cooperation and mutualism

But how can we start to build in facts, a solidarity network? In Italy there are no companies in which workers have replaced their bankruted bosses, like the Zanon, in Argentina. In Italian trade union culture one expects to find a boss to negotiate with, and not to find workers able to manage, organize and produce by themselves. The very circuits of cooperatives, formally widespread, is in reality made up of production and/or consumer companies (small, medium or even very big ones) which chose the form of cooperatives just to obtain advantages guaranteed by law, but that in facts are nothing but private companies, where the earnings turn into profits for few people. In this case, a typical case is the role of the so-called “fellow-workers”, who formally has a share of the gain, but that in reality is a subordinate worker, only sharing losses and with less rights than a common  subordinate worker in a private company. Not even the practice, very widespread nowadays, of Solidal Purchasing Groups (collective purchase right from the producer) can avoid being trapped in commercial logics and in institutionalization.

First thing to do is to connect all these small selfmanaged realities, both in the production and in the consumer field, which already exist and are in danger of closing down, because of their being too scattered, against market logic and too high costs of distribution. The second step is to create new ones, or in any case to foster the creation of other realities, on the basis of simple solidal patterns (Selfmanaged Popular Stores, basic tools to shorten the distance between producers and users, supporting local productions who respect quality and work employed), to get to more complex ones: libertarian production or consumer cooperatives, popular ambulatories, popular libraries, solidarity funds, etc. Creating selfmanaged realities which could bring an income for those who are employed in (and not profit) and benefits for proletarians, and linking them in an efficient and capable network, but in opposition to capitalist logic made of market and exploitation.

In this process our union can do a lot, by enclosing our selfmanagement project in the strategy of defense of proletarian interest on the workplace and, where there’s no work, in society.

We are not telling or saying anything new: workers’ movement, in Italy, had three souls, the resistance leagues, the mutualist one and the cooperative one. The matter is retrieving that originally libertarian tradition, and updating it. But it must be done now, quickening our step, and not only by talking about it.

IN the end, it’s to be said, in a strong manner, that all we assert it’s meaningless if it’s not linked to the defense of territory, of common goods and to the defense of Environment; a revolutionary process cannot do without an armonious recomposition of our relation with Nature and Landscape.

USI-AIT National Secretariat

USI-AIT  Executive Committee

National Secretariat  of USI-AIT Arti e Mestieri Union

 

Anarcosindacalismo:

una perspectiva de transformaciòn social

La fuerza-trabajo en Italia

La distribuciòn de la fuerza de trabajo en Italia es la tìpica de los paìses econòmicamente màs desarrollados que han sufrido pesados procesos de delocalizaciòn productiva: en 2009 resultaban 23.203 empleados (màs o menos 60% hombres y 40% mujeres), asì distribuidos, màs de 66% en los servicios, casi 30% en la industria y casi 4% en la agricultura. El porcentaje de trabajo autònomo es casi 25%. En 2010 el paro oficial ha llegado a 9,1%. El real, seguramente ha sobrepasado ampliamente el 10%, porque muchos han dejado de buscar un trabajo, y de hecho ya no se inscriben en la oficinas de empleo. Entre los empleados, los que tienen una condiciòn laboral precaria (trabajo de tiempo determinado y contratos de colaboraciòn) son casi cuatro miliones, de esos casi 25% busca trabajo. Los trabajadores extranjeros (comunitarios o extracomunitarios, claro solamente los con permiso de residencia regular) son, en 2010, casi 3.500.000.

El trabajo precario

Desde esta enjambre de datos, no simple de interpretar, queda claro que el papel tradicional del “trabajador italiano garantizado” – es decir el empleado a tiempo indeterminado, dependiente de medias o grandes empresas privadas o pùblicas –  ya no es por cierto el màs difundida, aunque permanezca mayoritaria, mientras el peso del trabajo precario ha crecido mucho. Esta situaciòn ha sido causada y apeorada por obra de la acciòn junta de los gobiernos (la primera ley sobre la precariedad es la 196 de 1997, llamada paquete Treu, y la que ha difundido enormemente la precariedad es la ley 30 de 2003, la llamada ley Biagi) y de los padrones, firmes en la defensa de sus provechos a travès de cortes al trabajo dependiente, pero tambièn a travès acordes con lo sindicados institucionales (por ejemplo el acorde de julio de 1993)

Hoy amplias partes de la poblaciòn tienen una relaciòn fràgil y ocasional con el trabajo. Esto plantea problemas, sea con relaciòn a su fuerza contractual, sea con relaciòn a su capacidad de organizarse, teniendo en cuenta su dispersiòn en el territorio. Para los sindicados del Estado (Cgil, Cisl e Uil) el trabajador precario es poco interesante por que non garantiza rentas fijas a travès de las cuotas sindicale de los sueldos. Al precario le consideran un trabajador de segunda categorìa, y lo mismo ocurre por los trabajadores inmigrantes, que a menudo son objetos de actividades de caracter asistencial. Lo mismo ocurre, desgraciadamente, en algunos sindicados de base.

Perspectivas y planes de lucha

Nuestra pregunta, por lo tanto, es: ?còmo puede un sindicado libertario y autogestionado contribuir a la organizaciòn y a las luchas de los trabajadores precarios en una perspectiva anarcosindicalista de clase?

Nuestra respuesta: no puede ocurrir sino a travès de una batalla en tres frentes.

El primero es el cultural, el segundo es el de las concretas luchas sindicales en los puestos de trabajo, el tercero es el de las pràcticas realizaciones de autogestiòn.

Por batalla cultural se entiende una campaña para la recuperaciòn de la solidaridad y la uniòn de clase. Fuera de estas coordenadas, cada lucha no es sino sectorial, corporativa y por eso mismo dèbil y destinada al fracaso. El reconocimiento de la autonomìa y de la alteridad de los proletarios frente al actual sistema socio-econòmico es el primer paso adelante, asì como lo es la inconciliabilidad de sus intereses con los del capital. La solidaridad y la lucha de clase no deben encerrarse en los confines nacionales, sino que deben relanzar al internacionalismo de los trabajadores y de clase.

Por lucha sindical concreta se entiende una lucha que comience en los puestos de trabajo, en las situaciones de explotaciòn real sufridas por los trabajadores, y que unifique las reivindicaciones bajo cualquier régimen contractual (tiempo indeterminado, tiempo determinado, contratos a plazo, contratos atìpicos, trabajadores interinales, etc.), segùn el principio “mismo trabajo, mismo sueldo, mismo horario, misma condiciones laborales”.

Tan solo entrelazando entre sì en el terruno de las luchas reales el precariado con el trabajo “garantizado” se anula el riesgo de marginalizarlo y de hacerlo subordinado, antes que a un nivel tècnico, ya en èl de las conciencias de los trabajadores y en nuestras propias cabezas. Ademàs, hoy en dìa ocurre que se reproducen mecanismos de poder jeràrquico a escala reducida entre trabajadores a tiempo indeterminado hacia trabajadores precarios. Esto, ademàs de ser enemigo de la unidad de clase, replica y funde la interiorizaciòn de la jerarquìa explotadora. Esto representa un obstàculo, pero es una batalla, también de tipo cultural, que no se puede evitar ni ignorar.

El proyecto autogestionario

Por concretas realizaciones autogestionarias se entiende la recomposición del tejido social segùn principios de solidaridad, que es lo màs original y especìfico de nuestro concepto de sindicado. Pues se necesita la creaciòn inmediata de un circuito econòmico y cultural alternativo a las lògicas del capital, que sea capaz de substituir mano a mano, en la vida economica y social, la idea de solidaridad a la del provecho, el mutualismo a la competencia del mercado. Un lugar de encuentro, de propaganda a través de hechos, màs que a travès de palabras, de los princìpios libertarios y que, al mismo tiempo, garantice la posibilidad de vivir y no sòlo sobrevivir, produciendo una renta, no estafada con la explotaciòn, sino libremente producida a travès de la cooperaciòn solidal.

A las nuevas categorias de trabajadores, como los precarios y los parcelizados, a los inmigrados y a los desempleados es preciso proveerlos con una alternativa de trabajo creìble, que sea una oportunidad de rescate de su propia existencia, consabida o menos, de explotados.

La alternativa tiene que construirse a partir de la creaciòn de realidades autogestionadas de producciòn, distribuciòn y de servicios que funcionen, y acercàndo a esas realidades las tipologìas de trabajadores que estèn màs dispuestos a dejar su propia condiciòn de explotados; esto darìa màs fuerza y dignidad a quién, de otra manera, permanecerìa en condiciones de ser chantajeados por parte de los padrones, y ademàs serìa una buena respuesta al paro y una mano hermana tendida hacia la inmigraciòn, que, como ya ocurriò en el pasado, podrìa abrir horizontes màs allà de los confines nacionales, hacia otros paìses donde el mutualismo solucionarìa a las mayorìa de los problemas.

La autogestiòn no es una teoria filosòfica, sino algo que se construye personalmente, concretamente enfrentàndose a la realidad, experimentando dìa tras dìa las hipòtesis de trabajo, hasta llegar a abrir un camino real que crezca y se afirme por su validez intrinseca. El choque, seguro que serà inevitable, por que habrà una oposiciòn a las realizaciones autogestionarias, que sufriràn un ataque apuntado a la anulaciòn de los resultados. Serà preciso llegar a enfrentar ese ataque oponiendo la concreta realizaciòn de proyectos reales, y no sòlo de palabras vacìas. La autogestiòn combate la opresiòn concretamente a travès de la Emancipaciòn y no de la violencia de los politicastros, que en la historia siempre ha engendrado una nueva opresiòn, sino a travès de un lenguaje de Libertad, y cuando sea necesario, defendiendo lo que hubieramos construido, con fuerza y màxima firmeza: lo que Proudhon llamò “Revoluciòn de Capacidades”. La acciòn directa no es un ataque frontal al poder, sino la participaciòn directa a la construcciòn del proceso de Emancipaciòn.

Una red solidaria, cooperativa y mutualista

Pero, ?como se puede, concretamente, comenzar a construir una red de solidaridad? En Italia no hay empresas autogestionadas, donde los padrones, despues de la quiebra, hayan sido substituidos por los trabajadores, como en la Zanon argentina. La cultura sindical italiana tradicional prevee que haya un padron con el que contratar y no que haya trabajadores que manejan, organizan y producen personalmente. El mismo circuito de las cooperativas, muy amplio desde un punto de vista formal, està hecho de realidades de producciòn y consumo (pequenas, nedias o hasta  muy grandes) que han llegado a la forma cooperativa para las ventajas de nuestra legislaciòn, pero que de hecho permanecen empresas privadas en las que los ùtiles se trocan en el provecho personal de unos pocos. Es tìpica la condicion de socio-trabajador, formalmente tiene derecho a parte de las ganancias de la empresa, pero en realidad participa tan sòlo a las perdidas y tiene menos derechos de los de un trabajador cualquiera en una empresa privada. Nisiquiera la pràctica, muy difundida, de los grupos de compras solidales (compras colectivas contactando directamente a los productores) consigue salir de las lògicas del mercado y comerciales, ni de la instituzionalizaciòn.

Lo que queda hacer es colegar entre sì todas las pequenas realidades autogestionarias, de producciòn y de consumo, que ya existen y que puedan fallecer, a causa de su dispersiòn, ante las lògicas del mercado y los costes de la distribuciòn. El segundo paso es el de activar nuevas realidades de este tipo, o fomentar otras nuevas, segùn formas de solidaridad muy simples (instrumentos bàsicos para reducir la distancia entre productor y consumidor, apoyar a las producciones locales que tengan cuidado a la calidad y al trabajo empleado), para llegar a las màs complejas: cooperativas libertarias de producciòn o de servicios, ambulatorios populares, bibliotecas populares, cajas de solidaridad, ecc. Pues crear realidades autogestionales que den una renta a quien trabaja (y no provecho) y beneficios para los proletarios y colegarlas entre sì en una red de eficiencia y capacidad paralelas, pero antagonista a las lògicas del mercado y de la explotaciòn. En este proceso un sindicado como el nuestro puede hacer mucho, agregando el proyecto autogestionario a la estrategia de defensa extrema  de los intereses de los proletarios en los puestos de trabajo, y cuando no haya, en la sociedad. No escribimos ni decimos nada nuevo: el movimento obrero, en Italia a lo mismo que en otros paìses, tenìa tres ànimas: la de los grupos de resistencia, la mutualista y la de las cooperativas. Es menester recobrar esa tradiciòn de matriz libertaria y ponerla al dìa. Pero es necesario comenzar a hacerlo acelerando el paso y no sòlo hablando.

Por lo tanto, nos queda subrayar, de manera fuerte, que lo que siempre afirmamos pierde su significado si no se une a la defensa del territorio, de los bienes pùblicos y a la salvaguardia del Medioambiente. Un desarrollo revolucionario no puede omitir una recomposiciòn armònica de las relaciones con la Naturaleza y el Paisaje.

Secretarìa Nacional USI-AIT

Comitè Ejecutivo USI-AIT

Secretarìa Nacional Sindicado Arti e Mestieri USI-AIT

 

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