Pensando (anche) al prossimo sciopero del 25 ottobre

IL SENSO DI CIO’ CHE FACCIAMO

Che viviamo tempi grami e difficili lo sappiamo.

Veniamo da un periodo che se è possibile ci ha fatto vedere tutto il peggio: diritti dei lavoratori sempre più attaccati (e non dobbiamo solo ringraziare le destre e i padroni, ma anche le cosiddette “sinistre” (?) coi loro sindacati conniventi); un consenso sempre più evidente per il fascismo, in una narrazione distorta e ignorante di ciò che fu in realtà; cementificazione continua; sfruttamento; sostanziale menefreghismo della più importante questione del momento –la crisi ambientale-, perché profitto e ambientalismo non possono andare d’accordo; massacri nell’indifferenza di centinaia di migliaia di persone (vedi in Kurdistan, in Siria, ecc) ed è normale; il razzismo più becero che gioisce senza alcuna vergogna per la morte di esseri umani.

E’ difficile per noi che abbiamo nel cuore e nel cervello un mondo diverso continuare a sognare e a resistere. Ma non abbiamo alternativa, anche perché non riusciremmo a non farlo.

Sul piano sindacale abbiamo di fronte alcuni nodi importanti, tra cui lo sciopero del 25 ottobre.

Si è molto parlato, nei mesi scorsi, di sciopero “rituale” e ormai stancante. È vero che dopo anni di presenza continua, di sacrifici, di lotte, trovarsi sempre punto e a capo possa dare sensazioni simili, soprattutto facendo riferimento ad un mondo, quello del sindacalismo cosiddetto di base, lacerato e diviso. E’ vero pure che lo sciopero negli ultimi anni è stato svilito con

regolamentazioni finalizzate a svuotarne il significato, per neutralizzarlo: ma lo sciopero è conflitto, non è indolore. Lo sciopero è il momento più alto di lotta che ci resta, è una importante cartina di tornasole del nostro agire quotidiano sul vero fronte, che è il nostro posto di lavoro, i nostri colleghi, le nostre e loro contraddizioni. Non fidatevi di chi parla, pure tra i compagni, di strumento inutile e superato: certo, deve essere riattualizzato, ma chi lo critica aprioristicamente alla lunga è qualcuno che abbandonerà la lotta: scommettiamo? Di filosofi, di “nuovisti”, di teorici del non si sa cosa, ne abbiamo visti tanti, negli ultimi decenni. Certamente, però, lo sciopero ci impone di pensare a superare i limiti che ci sono ed è innegabile: nella mobilitazione, nella proclamazione, nella sua articolazione concreta.

Sarà uno sciopero ovviamente legato a rivendicazioni precise circa la pessima situazione lavorativa: sempre più precariato, sempre meno diritti, salari sempre meno adeguati al costo della vita. Ma certamente è uno sciopero politico, nel senso più autentico del termine: l’attenzione per l’ambiente dev’essere considerata prioritaria, come il movimento di protesta mondiale sta denunciando, e allo stesso tempo vanno rifiutati i ricatti occupazionali che barattano lavoro con morte. Ma altrettanto importante è la lotta agli ultimi provvedimenti legislativi, che inaspriscono in modo intollerabile le pene per chi non si arrende e cerca ancora di lottare: i decreti sicurezza del governo reazionario di Salvini vanno totalmente eliminati, ma l’unica speranza che abbiamo non è riposta in nuovi governi i cui esponenti già conosciamo, ma nella determinazione di chi lotta e nella sua capacità di allargare conflitto e consenso.

Questo sciopero poi chiarisce nuovamente chi è cosa: ci siamo noi, c’è il Si Cobas, c’è la CUB: ci sono quindi i pezzi più avanzati e coerenti del sindacalismo conflittuale, e la nostra volontà è di continuare con lealtà a far crescere questa unità nella lotta. Non c’è purtroppo l’USB, che in cambio di una non meglio definita rappresentanza (leggi: permessi, distacchi, stipendi) ha firmato la legge antisciopero del 2014, e la sua assenza non è una novità: semmai, stupisce chi ancora, nel mondo antagonista, cerca di vederne una natura che in questa fase (domani chissà: niente è eterno) non ha più: è un sindacato certamente capace, ma verticistico come gli altri confederali, nulla più nulla meno, e lo diciamo col rispetto per i tanti bravi militanti che lo hanno scelto. Maggiore radicalità rispetto alla triplice non equivale ad essere “di base”.

In questo panorama stiamo noi, con le nostre contraddizioni, con i nostri limiti, ma anche con la nostra identità irriducibile, con le nostre caratteristiche, con la nostra determinazione.

USI è un sindacato piccolo, ma sta crescendo: la nostra forza reale è che chi ci ha conosciuto, di noi si fida, sa che noi non tradiremo. Parliamo di sindacati di base, ebbene: da noi niente è deciso se non passa da assemblee degli iscritti/e, dai congressi; nessuno di noi guadagna un euro; tutti gli incarichi sono a rotazione vcontinua (ben lontani quindi da certe “monarchie” di altre sigle): noi siamo ciò che diciamo di essere. Continuiamo a dirci libertari, anarcosindacalisti, perché abbiamo continua conferma del fallimento di ogni ipotesi ideologica e pratica statolatra e neoliberista: un altro mondo è possibile, si diceva, e a questo orizzonte noi guardiamo, ma non con gli occhi ingenui e vanamente retorici: fare sindacalismo, anche e soprattutto come lo facciamo noi, significa sporcarsi le mani, cercare di comprendere le contraddizioni del presente e tenere saldo il timone, ma anche migliorarsi, dare soluzioni concrete credibili a chi ce lo chiede, non parole e frasi fatte. Quindi autorganizzazione vera, sportelli sindacali autogestiti, avvocati quando serve, mobilitazione diretta e continua, solidarietà: queste le nostre armi.

Il nostro lavoro è sempre più difficile, perché dobbiamo contare solo su noi stessi, ed in un contesto contrassegnato da passività sociale e delega, è sempre più difficile trovare compagni/e che solo per una forte idealità hanno voglia di sacrificare tempo ed affetti. Ma a noi piace ciò che facciamo, e continueremo a farlo. Questo è il senso del nostro agire quotidiano, e per questo non saremo mai sconfitti.

 

Massimiliano Ilari, segretario nazionale USI-CIT, Parma 16 ottobre 2019

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