Il sindacale, il politico e il sociale

A volte risulta buona abitudine riflettere, oltre che sugli spunti che ci offre la cronaca dello scontro sociale, anche e soprattutto su quello che non succede.
Scrivevamo sul numero precedente di Lotta di Classe che nonostante il perdurare della crisi generale e l’inasprirsi delle sue conseguenze sulle condizioni dei lavoratori, nel nostro paese, a differenza di altre parti d’Europa e del mondo, non sta nascendo un movimento generalizzato di lotta capace di opporsi agli attacchi che la working class subisce giorno dopo giorno. Ci auguravamo che lo sciopero generale promosso dall’intero fronte del sindacalismo di base e conflittuale per il 23 aprile segnasse una significativa svolta di tendenza. Ma quello sciopero è stato revocato/rinviato in extremis per non impattare ulteriormente sulle condizioni delle popolazioni d’Abruzzo colpite dal terremoto. Giusta decisione, il problema è che quello sciopero non c’è mai stato. E’ stato proclamato per il 15 maggio uno sciopero generale dalle sole Cub (tiboniana), USI (non senza forti perplessità interne) e ALCobas, che peraltro ha avuto riscontri decisamente modesti.
A questa prima mancanza se ne collegano altre due: la prima è la mancata adesione di molti lavoratori che al precedente sciopero generale unitario del 17 ottobre erano scesi in piazza; la seconda è la mancanza di progressi nel processo di unificazione del sindacalismo di base che sembrava sul punto di produrre esiti concreti (dall’assemblea di Milano dello scorso anno che lanciò il Patto di Consultazione a quella, più recente, di Roma che lo trasformò in Patto di Base). Per quanto riguarda la latitanza dei lavoratori, la spiegazione è abbastanza semplice: una “chiamata” alla lotta da parte di solamente uno spezzone del sindacalismo conflittuale (che peraltro in questa fase appare diviso e frammentato per motivi incomprensibili ai più) non poteva che risultare velleitaria. Più complesse sono le ragioni dello stallo del processo di unificazione del sindacalismo di base. Alcune risalgono ad un passato non proprio recente con diverse storie (anche personali), culture politiche e concezioni sindacali dei vari gruppi dirigenti. Altre, più attuali, sono dovute alla crisi interna alla Cub che si è di fatto spaccata in due tronconi che ambiscono alla titolarità della stessa sigla. Ma se dovessimo ricercare cause più generali di questa impasse dovremmo probabilmente  chiamare in causa un’altra crisi: quella del modello sindacale a cui la maggior parte del sindacalismo di base si ispira. La forma-sindacato novecentesca (quella almeno che ha prevalso dopo la fine delle esperienze sindacaliste rivoluzionarie di massa tra le due guerre mondiali) fondata sulle grandi concentrazioni produttive e di lavoratori, su forti apparati di funzionariato tecno-burocratico, sulla delega permanente da parte dei lavoratori, sul rispetto delle compatibilità capitalistiche e sulla rigida separazione tra piano sindacale e piano politico, è trascesa progressivamente, nell’alternarsi delle crisi e delle fasi di ristrutturazione capitalistica, nell’attuale modello di sindacato-azienda integrato nell’apparato istituzionale. Il tentativo, iniziato tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 da parte di avanguardie politiche e di gruppi radicali di lavoratori, di invertire la tendenza e di recuperare le radici conflittuali dell’associazionismo sindacale della working class e che ha portato alla costituzione dei sindacati di base non si è mai discostato tuttavia dal modello originario e dalle sue caratteristiche. I paletti tra i quali muoversi, i binari sui quali correre, sono rimasti sempre quelli: la compatibilità delle richieste, il riconoscimento ufficiale dalla controparte, il rispetto delle regole e delle leggi, ecc. Il tutto interpretato con un po’ più di radicalità, ma sempre nel rispetto dello status quo. Tanto poi, nel rispetto dei ruoli, c’è sempre stato il côté politico (preferibilmente partitico e ancor più preferibilmente elettorale) nella sua compartimentalizzazione e specializzazione a “raddrizzare i torti” e a porre (?) la questione sociale. Ma se la forma-sindacato è in stato agonico quella partito è ormai putrefatta… Lobby d’interesse e gruppi di potere (se non vere e proprie bande di gangster) si alternano nei ruoli di governo e di opposizione a tutti i livelli, nel grande come nel piccolo. Hanno “riformato” il contesto politico, riscritto le regole e ridefinito i ruoli rendendo finalmente ben chiaro a tutti (tranne che alle caricature di partitini di estrema sinistra riesumate ad ogni scadenza elettorale) che nulla conta e nulla si può istituzionalmente praticare se non l’esercizio del potere al servizio del capitale. Di più, gli stessi termini “politica” e “politico” hanno “evoluto” il loro contenuto semantico, hanno assunto una connotazione totalmente negativa o detto in altre parole, puzzano come il pesce marcio.
Ma che cosa c’entra tutto ciò con il sindacalismo di base e con l’assunto iniziale dell’analisi delle mancanze? Molto, diremmo. In primo luogo perché i sindacati di base hanno perpetuato la separatezza tra ambito sindacale e sfera politica, subordinando il primo ai disegni para-elettoralistici di alcuni loro gruppi dirigenti. In secondo luogo perché le questioni sociali non sono mai state poste con chiarezza, ma solo adombrate come prodotto derivato, tanto per usare un termine in voga. Infine perché chi, come noi, si ricollega idealmente all’eredità del sindacalismo rivoluzionario con la sua progettualità sociale e alle radici del movimento operaio con le sue tradizioni mutualistiche e solidaristiche, questa mancanza non può non sentirla come un macigno. La lotta per l’emancipazione sociale, per una nuova società fondata su principi egualitari e libertari è nel nostro patrimonio genetico, va condotta giorno per giorno sperimentando e costruendo nuove relazioni sociali e produttive e non rimandata sine die in nome di un avvilente “realismo”. Se altri hanno deciso di sottomettersi all’esistente, riducendo la lotta sindacale a pratiche notarili e quella politica ad un mercato delle vacche, lasciamo pure a loro il monopolio di quel “sindacale” e di quel “politico”. A noi resta l’impegno a tutto campo nello scontro sociale e di classe.

Guido Barroero

Potrebbero interessarti anche...